Vita e opera, un conflitto perenne (L’Immaginazione, n.296, novembre )

Vita e opera, un conflitto perenne (L’Immaginazione, n.296, novembre )

Dante, come ce lo immaginiamo

Dante, come ce lo immaginiamo

Il can-can seguito alla scoperta del Sole 24ore intorno alla vera identità di Elena Ferrante, ha riportato in vita un vecchio fantasma, sempre pronto a riemergere: il rapporto fra opera e biografia. C’è un partito convinto che i testi vadano letti in sé, come fossero prodotti dal flusso continuo di un fare artistico autonomo. E ce n’è un altro che ritiene inevitabile fare i conti con la persona dell’autore.

Mi viene subito in mente una frase da Lo scrittore fantasma di Philip Roth: «Quando ammiri un autore, t’incuriosisci. Cerchi di carpire il suo segreto. Gli indizi per risolvere l’enigma che rappresenta». E questo vale per il singolo lettore-ammiratore come per il lettore-critico che scompone l’opera per ricomporla in un senso più generale e coerente. La biografia può sovente offrirgli chiavi di lettura che rendono l’analisi più precisa e profonda. La Divina Commedia non smetterebbe di essere un capolavoro se non avessimo mai sentito parlare di Dante Alighieri, ma è innegabile che conoscere le traversie della sua vita, le sue passioni politiche, la concezione sua e della sua epoca di «donna gentile», la realissima conflittuale amicizia con Guido Cavalcanti, come le altrettanto concrete inimicizie, aggiungono alle parole scritte una carnalità che le rende contemporanee, emozionanti. E, cosa non secondaria, illuminano passi delle cantiche altrimenti oscuri. Proprio a proposito di Dante, dice Ugo Foscolo: «Pur a molti lettori, ed io mi son uno, pare che a volere accertarsi degli intendimenti delle parole, mille commentatori non giovino quanto l’impratichirsi delle passioni e dei caratteri degli scrittori che nel loro stile trasfondono tutto quello che sentono».

Cesare Garboli

Cesare Garboli

Una visione che sarà sconfessata dal crocianesimo (l’arte concepita come pura forma) e che ancora inconsciamente permea la nostra cultura, rafforzata da almeno tre decenni di deriva strutturalistica e semiotica, quando i testi vennero ridotti a sistemi di segni, privati cioè totalmente dell’anima, in rocambolesche applicazioni marxiste a universi inconciliabili. Una traccia di quello che chiamerei “complesso di Croce” lo si ritrova nella contraddittoria posizione di Cesare Garboli sul tema. In Pianura proibita, infatti, lui che è un ineguagliabile studioso della presenza «in carne e ossa» degli scrittori, scrive: «L’opera di un autore, e le linee della sua vita, sono per me due entità incommensurabili. Due realtà autonome, due sintesi, per dirla in gergo crociano, dialettiche ma indipendenti, da studiare anche simultaneamente, congiuntamente, se si vuole, anche “a fronte”, ma tenendole accuratamente distinte nel giudizio di realtà e valore. In questo, mi riconosco fermamente, assolutamente crociano, anche se non così crociano da pensare che solo le opere, e non le persone, siano una realtà». Però si affretta subito a rafforzare la parte «non così crociana» appellandosi a Gianfranco Contini che ha ben visto come l’opera sia atto, attività e non un qualcosa di perfetto che piomba dall’alto o dal niente, oggetto miracolosamente autonomo e possibilmente anonimo.

Elsa Morante

Elsa Morante

Mi domando: non ha forse sempre l’autore un bisogno prepotente di dire qualcosa, quella cosa? E non è quella cosa (l’opera) il ponte che getta da se stesso, cioè dalle sue emozioni, il suo gusto, le sue necessità, la sua vita (sì, la sua vita) verso chi l’opera leggerà, guarderà, ascolterà e, nella più grandiosa delle aspettative, la capirà, l’amerà? Sotto l’equilibrio estetico che un autore raggiunge grazie alle sue esclusive capacità artistiche, non c’è sempre nello scrivere una storia – dichiaratamente autobiografica o di fantasia – la richiesta di un’attenzione eccezionale, profonda, estrema, meravigliosa da parte di altri esseri umani che entreranno così in una relazione intima con chi ha creato quella cosa lì? Diceva Elsa Morante che non c’è nulla più autobiografico dei romanzi, sono come i sogni: «un travestimento, avvenuto più o meno inconsapevolmente» della propria vita.

Benedetto Croce

Benedetto Croce

Ma, tornando a Garboli, una volta Giovanni Raboni (e con lui Franco Fortini) lo accusò di usare «l’opera come indizio, uno dei tanti possibili, per venire a capo di quell’enigma che si nasconde (autore o no) dietro ogni persona». Francamente è un’accusa che non capisco. I testi hanno bisogno di essere interpretati con tutti i mezzi possibili, quelli di un’esegesi interna, quelli psicologici, quelli legati a dati biografici, quelli di un’intuizione oserei dire medianica. A volte un bravo critico, o semplicemente un bravo lettore, è una specie di sensitivo che con la mediazione del libro e dei dati di cui dispone, passando inevitabilmente attraverso se stesso, mette in dialogo mondi lontani. Perché forse poi, alla fine, più dei libri sono importanti le persone, «più della “letteratura” – ancora Garboli – tutto quello che la letteratura nasconde e rivela».

 

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