Mia prefazione a VIA DEGLI ANGELI, di Angela Bubba e Giorgio Ghiotti (Bompiani, dicembre 2016)
« Qui è nato… Qui ha vissuto…Qui ha scritto…» dicono le targhe a chi ha ancora voglia di leggerle. E pigramente alziamo lo sguardo a una certa finestra, accarezziamo un portone rimasto fermo nel tempo. A Firenze è un inciampare continuo in queste targhe, la città ha fiducia nella sua memoria artistica e tiene nota con orgoglio dei tanti poeti, scrittori, pittori di tutto il mondo che proprio in quella casa lì, dentro quel tal giardino, a quel preciso tavolino di Caffè, hanno lasciato una traccia, un segmento di esistenza, il segno di un’opera maturata o iniziata o compiuta nel suo abbraccio accogliente. Ma Roma! Roma è dimentica e dispersiva. Roma macina e distrugge se stessa, la propria gloria, il presente e il passato. Cercare targhe commemorative in giro per Roma è un’impresa folle e coraggiosa. Ancora più folle mettersi a fermare i suoi abitanti, interrompendone la corsa quotidiana, per chiedere: «Lei si ricorda, per caso, di una scrittrice che ha abitato qui? Di un poeta che frequentava questo bar?» Il massimo che ti risponderanno sarà allora un «Morante chi?» o un «Sandro Penna, certo, il famoso attore….»
Angela e Giorgio, giovani scrittori che si muovono in motorino o emergono ogni tanto da fragorose metropolitane, l’impresa folle l’hanno affrontata. Con i loro caschi sotto il braccio, si sono messi per le vie di Roma a caccia di ricordi. Dal Ghetto al Centro Storico, da Testaccio a Monteverde, dai Prati ai Parioli, da Trastevere alla Balduina: due segugi sentimentali, malati di letteratura. Sfrontati quel che basta per importunare vecchiette coi sacchi della spesa, molestare portieri presi dai loro neghittosi impegni, distrarre verdurai scorbutici intenti a dare il resto, soltanto per domandare: «Lei ha per caso conosciuto…»
Angela e Giorgio forse hanno studiato Jung, sicuramente hanno letto T.S.Eliot, sanno come attivare il meccanismo della “sincronicità”, vanno in cerca di “correlativi oggettivi” per dar vita a una magia di stravaganti coincidenze fra la loro propria psiche ed eventuali accadimenti esterni, sperano di trasformare questi incontri di strada in un’emozione. E ci riescono, e poi si mettono a scrivere, alternandosi in capitoli che sembrano usciti da un’unica mano, perché identico è lo spirito che li spinge, identiche le intenzioni. Questo piccolo libro, questo carillon emotivo, questo avvincente Via degli Angeli è il risultato di una passione comune e di vagabondaggi paralleli. Cosa hanno raccolto? Il più delle volte un pugno di mosche. Ma volevano davvero ricostruire, con le testimonianze dei sopravvissuti, la vita di Pasolini, di cui si sa praticamente tutto? Volevano scoprire i retroscena delle infinite fughe di Anna Maria Ortese, interrogando una dama centenaria? O smascherare Gianni Rodari che si negava ai bambini? Intendevano penetrare nel demone autolesionista e suicida di Amelia Rosselli innescando un’improvvisa marcia drammatica? Nulla di tutto questo. Sono acchiappafantasmi, cultori dell’attimo, sono giovanissimi e hanno bisogno di credere negli angeli, ma lo sanno che l’angelo ha la stessa natura del demonio.
E’ la passione a dettare gli indirizzi, ma poi è il caso a creare l’incontro con l’oste che ha sentito con le sue orecchie lo schianto di Amelia dopo il tuffo nel vuoto da quella fatale finestra sul cortile di via del Corallo. Non desideravano altro che riascoltare quello schianto. O sorprendere Natalia Ginzburg nel negozio di calzature a comprarsi le sue scarpe da uomo, e Moravia che ripete all’infinito, per loro e per noi, una frase regalata a una sconosciuta nel giardinetto sottocasa, dove portava a passeggio il cane: «La vede quella nuvola strampalata e affascinante? Ha la forma delle mie giornate».
Povere bestie gli scrittori, come ogni altro essere umano. Si lasciano dietro, tutt’al più, quel che resta del tempo o, come dice Bubba, «cose sante e violate per sempre, cose sopravvissute». Per esempio la vecchia palma che alta, solitaria domina un altro risonante cortile, quello della casa testaccina dove Elsa Morante passò l’infanzia e che, a farsi attenti e a saper ascoltare la voce delle cose, ritrovi uguale in un passo di Menzogna e sortilegio: «scolorato palmizio, triste quanto un albero morto». Perché, dice giustamente Ghiotti: «Bisogna saperli leggere i ricordi». E Angela e Giorgio questo lo fanno benissimo. Non s’intestardiscono mai a trovare ciò che sperano di trovare, anzi subito s’arrendono, autentici flâneur di tempi lontani, non forzano le persone, ma si mettono ogni volta in ascolto anche dei falsi ricordi come fossero veri. Perché memoria e smemoratezza si danno felicemente il cambio in questo libro, sono sentinelle alla pari. Non è così importante stabilire una gerarchia fra vero e falso, si lascia alla fantasia dei testimoni tutto il margine possibile di approssimazione ed errore e, alla fine, le tante voci dei diversi cittadini, romani e non romani, cinesi o africani, formano un’unica voce, la voce di una città più meticcia che mai, obliosa, ma insieme affamata di storia, la sua propria ibrida storia.
E così Angela e Giorgio, procedendo un po’ a vanvera, finiscono col disegnare una nuova incantata e incantevole toponomastica: «via della Camilluccia è uno stradone con poca gente e molta solitudine» dice a un certo punto Bubba cercando Goffredo Parise e trovando Carlo Emilio Gadda. Tante strade non esistono più, certe palazzine sono andate distrutte, le hanno ricostruite anonime e brutte. Il Tempo, «grande scultore», è ormai attivo soprattutto come gran demolitore, ruspa e schiacciasassi. La fragile trama della memoria si sgrana e si allarga, ma non importa. Importa il viaggio, costellato di qualche epifania. Importa poter dire (Ghiotti): «Mi è parso sentire una voce chiamare il mio nome. Mi volto: non c’è nessuno».
Francesco di Branco
Gran bell’articolo Sandra, spero che il libro lo valga.
Un saluto affettuoso
Francesco di Branco
Sandra Petrignani
E’ molto tenero. raro che scrittori giovani di oggi si guardino indietro. Apprezzo molto il loro cercarsi le radici