Il Meridiano dedicato a Malerba (In succedeoggi.it, dicembre 2016)
Luigi Malerba, o Gigi, come lo chiamavano gli amici, viene a volte avvicinato a Samuel Beckett e a Thomas Bernhard. A me non sembra un accostamento corretto. Come non sarebbe corretto definirlo scrittore d’avanguardia. Sicuramente è un autore che, scrivendo, riflette sulla letteratura, ma non vuole smontare la letteratura per non lasciare più alcun piacere al lettore. Fa scuola a sé, come il grande irlandese e come il grande austriaco, dei quali però non ha – e non ha mai aspirato ad avere – la cupa, finale visione del mondo e dell’umanità. Il suo sguardo è burlesco, divertito e divertente. Gli piacciono i clown, i rovesciamenti, le contraddizioni buffonesche, i giochi di parole e i capitomboli del linguaggio, gli piacciono le allusioni grassocce, i lazzi popolareschi, le filastrocche infantili. E’ capace di chiamare i suoi personaggi Berlocchio e Bernarda (nel Pataffio) o Giuseppe detto Giuseppe (Salto mortale), di sconvolgere la gerarchia indiscussa delle cose cominciando dall’ordine delle lettere (La scoperta dell’alfabeto) o dalla perentoria potenza dei numeri (Il serpente). E’ uno scrittore leggero ed elegantissimo, naviga in superficie e colpisce e mina le sicurezze che diamo per scontate, che riteniamo intoccabili e profonde.
Ho citato alcuni fra i più bei titoli di Malerba, titoli di suoi libri che dovrebbe essere proibito ignorare. Sono ora raccolti in un Meridiano Mondadori insieme a altri quattro: Testa d’argento, Il fuoco greco, Le pietre volanti, Fantasmi romani, in un percorso che va dall’esordio narrativo nel fatidico 1963, fino alla morte avvenuta nel maggio 2008. Il che non significa che la scelta sia esaustiva. Tanto di quanto Malerba ha scritto e inventato resta inevitabilmente fuori. Restano fuori, per dire, i libri di viaggio, la parte saggistica della sua produzione, gli incantevoli, esilaranti libri per l’infanzia, il suo lavoro di sceneggiatore, oltre a molti racconti e romanzi. Ma c’è tempo per l’opera veramente omnia, che in alcuni casi è anche un po’ mummia.
Forse, grazie pure ai suoi buchi, questo (primo?) volume dei Meridiani non ha niente di lapidario e definitivo, ci regala invece la personalità svelta, curiosa, scatenata di uno scrittore che si supera costantemente, che non smette di cercare e di spostare più avanti i traguardi del suo narrare. «Malerba ha fatto sempre questo: viaggi all’interno della propria scrittura e della propria mente» scrive Walter Pedullà nell’illuminante introduzione. E ancora: «Ecco cosa vuole Malerba scrivendo e cercando il senso della realtà: fare pulizia, non solo artistica, ma anche politica, sociale e soprattutto morale, distinguere gli uomini sporchi da quelli netti di macchia e mandarli all’altro mondo». Chi può sostenere, infatti, che ridendo non si riesca a dire una profonda indigesta verità? E oggi che questa verità indigesta, detta sganasciandosi in palcoscenico o in qualche vignetta disegnata sui giornali, è appannaggio soprattutto dei comici in Tv, la lezione malerbiana diventa tanto più istruttiva, complessa, seria. Perché non è mai puro sberleffo il suo, ma capacità di vedere il lato in ombra delle cose, il rovescio della medaglia, e il gusto di ridere o deridere è quello antico del fool, che rischia di persona la critica mossa al re e al suo potere e, per questo, trascina nella sua gobba il peso del rischio e la consapevolezza amara di un martirio imminente.
Ho poi scoperto, grazie a questo Meridiano, tante cose che non sapevo di Gigi, e chiedo scusa se cedo al sentimentalismo di chiamarlo semplicemente per nome, in ricordo della sua generosa amicizia in anni purtroppo molto lontani. Sì, leggendo la preziosa e corposa cronologia redatta dal preciso Giovanni Ronchini, ricca di citazioni da interviste o da altri testi secondari, si può ricostruire il percorso di una vita sostanzialmente fortunata e felice. Mi sono risuonate le parole attribuite da Malerba al protagonista del Serpente: «Non posso dire di aver avuto una infanzia infelice come dicono tutti». E dopo l’infanzia (a Berceto e poi a Parma), eccolo compagno di scuola di futuri protagonisti del giornalismo italiano e pronto a coltivare, con Guido Aristarco e Attilio Bertolucci, la passione per il cinema. A ventitré anni lascia Parma e sbarca in una Roma vivace e ricca di talenti che lo accoglie materna nelle sue osterie e nelle sue bettole dove ti siedi accanto a pittori, poeti, registi e trovi lavoro chiacchierando davanti a un fiasco di vino. E poi c’è la scoperta dell’amore e un lungo matrimonio, uno solo, vissuto con intelligenza e letizia. E poi, purtroppo, la malattia e un’operazione mal fatta e un calvario doloroso e fisicamente handicappante che non gli ha impedito, però, di lavorare alacremente fino all’ultimo. Era nato nel 1927 sotto un cognome festoso e positivo (Bonardi), si era voluto Malerba, erbaccia infestante, senza in realtà mai smentire il bonario viatico del nome di famiglia. E anche della morte si è fatto beffa, essendo trapassato tranquillamente nel sonno. Aveva 81 anni e potrebbe essere ancora con noi a indicarci una strada stravagante, eppur sempre impegnata, negli attuali tempi miopi, impastati con un basso derivato di conformismo che si chiama omologazione.