Omaggio per gli 80 anni di Antonio Debenedetti
(dal libro SENTIMENTALGIA. Ritratto a più voci di Antonio Debenedetti, a cura di Paolo Di Paolo. Ed. Elliot, 2017. Con testi di Andrea Carraro, Benedetta Centovalli, Cesare De Michelis, Paolo Di Paolo, Alain Elkann, Giulio Ferroni, Biancamaria Frabotta, Daria Galateria, Filippo La Porta, Raffaele Manica, Paolo Mauri, Massimo Onofri, Silvio Perrella, Sandra Petrignani, Loretta Santini).
Alla fine degli anni ’70, il palco di legno costruito sulla spiaggia di Castelporziano per ospitare il Festival di Poesia più sciamannato che si ricordi, sprofondò su se stesso e s’inabissò nella sabbia fredda della sera estiva. Era la prima settimana del luglio 1979 per l’esattezza. Per fortuna nessuno si fece male, ma siccome era l’ultimo dei tre giorni di festival, il crollo assurse a immagine simbolica. Come osservò Osvaldo Soriano: «quel crollo così lento, così dolce, è stato un lungo addio, la fine del sogno di una generazione». Il sogno era fare incontrare la poesia con le masse, allargarne l’esiguo pubblico in un’epoca di crescente commercializzazione. Allora sembrò un fallimento, perché la gente prendeva a insulti e pomodorate i poeti più seri e si placava solo con gli istrionismi di Evtushenko o il banjo di un residuale Allen Ginsberg. E invece, alla luce dei festival letterari che si sarebbero moltiplicati successivamente, Castelporziano è stato un evento precursore. Precursore di un mondo dove al valore dei testi si sarebbe sostituito il corpo degli autori, la loro capacità di mettersi in scena e di “vendersi”.
Era questo il clima letterario in cui ho conosciuto Antonio Debenedetti. Non avevo ancora trent’anni, facevo la giornalista culturale e scrivevo poesie. Ci muovevamo in una Roma dove ti capitava di incontrare per strada Alberto Moravia o Elsa Morante, dove abitavano anche i riservatissimi Natalia Ginzburg e Italo Calvino, dove la morte di Pasolini, quattro anni prima, sul litorale di Ostia, aveva lasciato la ferita di una violenza irreparabile, che si mescolava senza soluzione di continuità a quella del piombo delle Brigate Rosse. L’assassinio di Pasolini ci aveva già messi in guardia: niente sarebbe stato più come prima, la poesia e l’arte erano morte, estirpate dalla terra con violenza. E fu altrettanto simbolico veder sparire nel corso dei pochi anni successivi quasi al completo quella grande generazione e con una precocità traumatica. Morante e Calvino nell’85, Parise l’anno successivo, Moravia, Caproni, Manganelli nel ’90, Natalia Ginzburg nel ’91, Amelia Rosselli nel ’96, suicida a sessantasei anni. Ci sentimmo improvvisamente orfani, la sensazione di sporgersi su un abisso, senza più sponda, senza padri e madri da amare o contro cui rivoltarsi.
E’ una lunga premessa, ma necessaria. Frequentavo a quei tempi un gruppo di scrittori e poeti tutti più grandi di me di una decina d’anni che si vedevano nei caffè del Pantheon o a casa dell’uno o dell’altro. Dario Bellezza, Franco Cordelli, Ugo Leonzio, Giorgio Manacorda, Valentino Zeichen. Erano maschilisti e critici, ironici e acidi. Le donne come me finivano nel gruppo portate da qualche fidanzato. In genere non erano scrittrici, loro le avevano in sospetto. Io, che mi volevo poetessa, ero tollerata, credo, per l’altra mia identità: giornalista culturale al Messaggero, e poi ero carina e così, scacciata dalla porta come scrittrice potevo rientrare dalla finestra per altre qualità. «Ragazza carina, selvaggina» era il motto non gridato, ma ugualmente onnipervasivo dei tempi. Io presto me ne scappai nel femminismo, e quei bar intossicati e mortificanti smisi di frequentarli. Antonio devo averlo conosciuto al tavolino di quei caffè o a casa di un’amica di Cordelli. Ma va a onor suo che non fosse un habitué della compagnia, se ne stava per conto proprio. Era pallido, malinconico, nevrotico. Figlio di una leggenda, il grande proustiano Giacomo Debenedetti, del quale all’università avevamo studiato, che dico, imparato a memoria il Personaggio uomo. Antonio era cresciuto sulle ginocchia di Umberto Saba, aveva avuto dimestichezza con Gadda e, da ragazzo, incontrava a cena Bobi Bazlen, altra leggenda misteriosa e sulfurea, fra gli amici più stretti di suo padre. Il primo libro l’aveva pubblicato a ventun’anni. Titoli come Monsieur Kitsch e In assenza del signor Plot, che non avevo letto, t’introducevano subito – bastava il titolo voglio dire – nel clima spaesato dei nostri anni, nei giganteschi problemi che ci trovavamo ad affrontare per poter continuare a scrivere narrativa dopo la neoavanguardia.
Di questo parlavamo, quando c’incontravamo fuori dal gruppo, questo ci stava a cuore. Avevamo fatto amicizia, perché non aveva prevenzioni verso le donne scrittrici, lui che dava del tu alla Morante, alla Ginzburg, a Gianna Manzini. Anzi, sulla Manzini litigammo (e abbiamo continuato a litigare negli anni). Io non l’ho mai sopportata, mi sembrava una pessima imitazione della grandssima Woolf, lui tendeva ad allinearsi al giudizio paterno perché Giacomino (incomprensibilmente per me) la stimava.
La nostra amicizia, fatta di poche telefonate e ancor meno incontri, saldamente resiste nel tempo, resiste nonostante le mie distrazioni e il suo brutto carattere (lo dico perché è Antonio il primo a riconoscere di avere un caratteraccio). Resiste per un motivo molto semplice: perché ci stimiamo fin da quel giorno lontano in cui comparve, delicato e sensibile, in mezzo al gruppo dei comuni amici lupi. E’ come ci fossimo subito riconosciuti nella nostra fragilità mascherata. Io la mascheravo nell’arrogante mutismo della giovinezza, lui in una sua aria da dandy in conflitto con se stesso. A partire da Ancora un bacio, dell’81, ho letto puntualmente i suoi libri, gliene ho parlato, qualche volta ne ho scritto, con ammirazione e affetto. C’è dentro il suo sguardo crudele sugli uomini e sulle donne, un’intima sorniona tenerezza, una comprensione un po’ disperata, un po’ arrabbiata, sempre intelligente della natura umana. Antonio scrive senza spreco di parole. In un racconto di Spavadi e strambi, dice in tre battute: «Suona il telefono, parla la banca: il conto è in rosso». E più avanti un intellettuale dice di sé: «Dietro Oscar Wilde c’è l’impero britannico, dietro di me solo l’avanspettacolo». Non zavorra mai il suo sguardo con descrizioni dettagliate o con giudizi, va dritto al sodo con una secchezza imparata una volta per sempre dal miglior Moravia: «Single come la masturbazione, come un letto a una piazza e come l’io di quelle poesie, che non chiedono nemmeno di venir scritte» (cito da Il tempo degli angeli e degli assassini). Non cerca la battuta, ma la battuta gli serve per ancorare la realtà allo spessore infimo della vita contemporanea, alla corrosione delle relazioni, al degrado della vita sociale, all’aridità morale. E non in nome di chissà quale beatitudine o aspirazione di altre vite, altre epoche possibili. Non c’è passato o futuro che tengano. L’essere è questo grumo di risentimenti, fallimenti, illusioni impotenti. Sempre. Va guardato, descritto, e lasciato com’è. A volte manca l’aria, leggendo Debenedetti. Sì, viene la sensazione sgradevole che ti abbia cacciato in testa un sacchetto e stretto forte intorno al collo. Ma la letteratura deve dare sensazioni forti, stupido ribellarsi. Solo che lui, dopo la sensazione forte non ti allunga il fazzoletto. Non ti lascia nemmeno piangere. Molla la stretta del sacchetto e ti abbandona al tuo senso personale di insanabile sconfitta.
Ora apro Giacomino, quella “biografia” sghemba di suo padre, il suo lessico famigliare, una prova di autobiografia anche e, insieme, foto di gruppo di una generazione immensa e che pure, nelle singole personalità viste da vicino, rivela la stessa modesta natura, stramba e imperfetta, nevrotica e inaffidabile dei tanti umili personaggi dei racconti di Antonio Debenedetti.
Quel palco che sprofondava sulla spiaggia di Castelporziano era stato invaso da tante creature allo sbando che ignoravano il nome di Giacomino come dei suoi amici, Carlo Levi o Ernst Bernhard che fossero. Sprofondava e io e tanti altri ci chiedevamo dove avremmo potuto collocarci da quel momento in poi. Antonio no, non credo che se lo chiedesse. Lui era pur sempre sulle ginocchia di Saba, solo che da sempre sapeva quanto quelle ginocchia fossero un sostegno precario anche per il corpo cui appartenevano. Insomma, pure ad aver dietro «l’impero britannico» la vita e la letteratura sono un appoggio di cui non è possibile fidarsi, e ognuno faticosamente ha da cercare i propri appigli, in ogni caso comunque elusivi e ingannevoli.
C’è la dedica sulla mia copia di Giacomino: «A Sandra il suo Antonio». Ricambio: Ad Antonio la sua Sandra.