Il primo incontro con Natalia Ginzburg (sul Fatto Quotidiano, 18/2/18)
Di Natalia Ginzburg colpiva subito lo sguardo. Ti inchiodava con i suoi occhi scurissimi, e ti sentivi senza scampo. «Occhi neri e pungenti, femminili» li ha descritti Cesare Garboli, il critico che fin da Lessico famigliare ne ha incoraggiato e seguito l’opera, grande amico della vita adulta. Ed era una donna severa, qualità oggi così fuori uso che è persino difficile spiegare in cosa consistesse. Si trattava, credo, di un modo di stare al mondo senza maschere, diretto e sincero. Raro anche in quei primissimi anni Ottanta in cui l’ho conosciuta io, quando mi convocò a casa sua per dirmi cosa pensasse di un manoscritto che le avevo inviato in lettura.
Venne lei ad aprirmi, in piazza Campo Marzio, ultimo piano di un vecchio palazzo romano. In un racconto indimenticabile, La casa (in Mai devi domandarmi), descrive le divertenti avventure della ricerca, insieme al secondo marito, l’anglista e scrittore Gabriele Baldini, dal carattere roboante, diversissimo dal suo, che l’aveva lasciata vedova una seconda volta, nel ‘69. Il primo marito, Leone Ginzburg, il grande intellettuale che con Giulio Einaudi aveva fondato la casa editrice, e resistente fra i più temuti dal fascismo, era morto all’inizio del ’44 a Regina Coeli, in seguito agli “interrogatori” dei tedeschi che avevano occupato Roma. Per tutto questo Natalia era circondata da un’aura speciale, di dolore e di grandezza, oltre a essere l’autrice rispettatissima di un libro-culto, Lessico appunto. Ma su quel pianerottolo mi trovai di fronte una donna semplice, cardigan blu e gonna a pieghe, scarpe maschili, niente trucco. Il contrario delle donne colorate che eravamo noi in quegli anni di prorompente femminismo, anni di rivendicazioni e cortei. Il mio romanzo assomigliava a quella festa di strada: come mi era venuto in mente di sottoporlo a lei? Ho avuto un brutto presentimento davanti alla targhetta della porta in cui il suo nome seguiva quello del marito rinunciando al proprio: Gabriele e Natalia Baldini.
Ci sedemmo sul divano blu, suo colore preferito. La cartellina che conteneva i miei fogli giaceva su un tavolino basso davanti a noi. Mi guardò a lungo con quel suo sguardo che pareva capire tutto di te. «Possiede antenne misteriose che captano gran parte dei sentimenti profondi della gente» diceva Einaudi. Mi sembrò emanasse da lei una qualche segreta simpatia per me. Ma il responso fu lo stesso durissimo. Prese fra le mani la cartellina e me la porse. «Io questo libro non l’ho capito. Siccome non l’ho capito, non mi piace. Ma siccome non l’ho capito, non posso dare un giudizio» disse senza allentare l’arpione dello sguardo. Il resto non me lo ricordo. Un silenzio lunghissimo. Ero tramortita, e poi per le scale, dovetti sedermi su uno scalino, a piangere: vivevo l’esperienza di un fallimento totale ed eterno, perché l’aveva decretato “la Ginzburg”, la scrittrice che amavo di più, e che era la Storia, era il Potere Editoriale del marchio, lo Struzzo, che aveva formato la mia generazione, come quelle precedenti fin dal dopoguerra.
Quel mio romanzo poi lo pubblicai con l’aiuto (un editing radicale) di un altro scrittore, Giorgio Manganelli. Non ricordo se lo inviai a Natalia. Ma intanto avevo conosciuto Giulio Einaudi, perché facevo parte di un gruppo di giovani intellettuali e scrittori riuniti intorno a Theoria, una nuova casa editrice che si stava facendo notare e a cui Einaudi era molto vicino. Si andava spesso a cena con lui, quando era a Roma, e qualche volta, raramente, veniva Natalia, che parlava pochissimo. Guardava Giulio con affetto divertito, come si fa con un figlio ribelle. Un giorno mi arrivò un suo biglietto perché sul Corriere mi avevano pubblicato un racconto che le era piaciuto. Era un biglietto affettuoso. Diceva quanto aveva amato il racconto e che addirittura se l’era ritagliato! Ho sempre pensato che avesse esagerato per potermi risarcire della precedente bocciatura. Ma forse no. Forse era, ancora una volta, se stessa: sincera in modo estremo, irrinunciabile.