Mia lettura dei racconti di Mario Fortunato (sull’Immaginazione 303)
Ho sempre avuto l’impressione che quando un libro è vitale, nasconde dentro di sé un segreto, qualcosa che non può essere assolutamente detto, ma da cui irradia il senso della narrazione, come da un nucleo sconosciuto allo stesso autore. E’ un’impressione che i sedici racconti di Mario Fortunato, raccolti in Tutti i nostri errori e pubblicati da Bompiani (315 pagine, 17 euro), confermano in un modo particolarissimo, quasi lanciandosi l’un l’altro bagliori di questa forza segreta e stabilendo così un legame che, a seguire soltanto le diverse trame, non si coglierebbe interamente. Sono racconti che in ordine cronologico si distribuiscono nel corso di trent’anni, però l’autore ne ha seguito un altro, di ordine, quello di una sua personale ricomposizione che dovrebbe organizzare le storie in una iperstoria o, se si vuole, un romanzo, un romanzo che lui definisce «controvoglia» recuperando la definizione moraviana di “impegno controvoglia”. Sarebbe uno sbaglio sottovalutare questa indicazione offerta in copertina quasi con noncuranza: Trent’anni di racconti in un romanzo controvoglia, dice infatti il sottotitolo, o – peggio – prenderla come una trovata pubblicitaria. Sono racconti, ma in realtà sarà come leggere un romanzo! Quante volte ci hanno spiegato che gli editori temono il genere “racconto”. Non si vendono i libri di racconti, dicono. (Come se i romanzi, invece, sì.)
Ecco, niente di tutto questo. Tutti i nostri errori è una narrazione che s’interroga sulla costruzione delle storie nel tempo da parte di uno scrittore, che vive e dà forma artistica alla sua vita. Non lo dice chiaro e tondo un personaggio del libro che, guarda caso, si chiama Goethe? L’arte non è «rispecchiamento, ma coincidenza di vita e forma» e il racconto s’intitola Goethe a Terracina e l’errore più grosso che potremmo commettere è – da scrittori, ma anche da semplici individui – mancare quella coincidenza. Proprio come si manca un treno, un appuntamento, un’occasione. A volte non per colpa nostra. A volte ci si mette il caso o, chiamatelo in modo più impegnativo, il destino. Una violenza subita da piccoli, un’umiliazione finita nel pozzo del rimosso. O, più comunemente, la codardia con cui abbiamo «abbandonato l’infanzia» disponendoci a invecchiare precocemente, adattandoci alla «menzogna che è la maturità» e «alle bugie dell’età adulta» perché solo i poeti, forse, come i bambini, possono continuare a dire anche da grandi «la timida, inutile verità», quella che Wystan Auden (sì, proprio lui, protagonista del racconto Auden fra Ischia e Berlino) non sa tacere nemmeno in tribunale. O quella che, fra tanti teatrali mascheramenti e fameliche rappresentazioni di sé, porteranno La Bouche, in Ritratto dell’artista da geco, a tradurre la propria voracità sessuale in una grandiosa opera non commerciabile e totale, dipinta sulle pareti di casa e che contiene ogni istante della sua vita come «tutti gli istanti di tutte le vite possibili di ognuno di noi».
Ma non sono solo artisti, scrittori e poeti i protagonisti di questa narrazione: nella maggior parte dei racconti si muovono anzi personaggi anonimi, spesso giovani, disorientati e in cerca di se stessi nel sogno, quasi sempre delusorio, d’una relazione d’amore con “l’altro” che, maschio o femmina, ha comunque qualcosa di sfuggente e vagamente persecutorio. Anche in queste complesse vicende di amori mancati, o finiti, o compiuti soltanto a metà, in cui l’omosessualità gioca un ruolo decisivo – più che altro, si direbbe, di sabotaggio dei sentimenti in qualunque direzione siano diretti – l’errore è il motore invisibile che determina fallimenti e destini, paure enormi non riconosciute o piccoli malintesi, spostamenti dell’attenzione o viltà. E’ un errore endemico, difficilmente arginabile o riparabile, aggrovigliato alla natura umana, un errore – o anche tutti gli errori del titolo – che l’autore guarda da una posizione laterale. Non proprio esterna ma quasi, così può allo stesso tempo farsi protagonista delle sue storie e prenderne le distanze, e stendere su tutto una lucida materia trasparente che separa conservando integra la visione.
C’è un breve nitido racconto dal titolo Televisione, non a caso collocato in posizione abbastanza centrale nella raccolta, che senza essere forse fra i più belli (ma a me pare molto bello) né sicuramente fra i più complessi, riassume tutte le qualità della scrittura di Mario Fortunato: una tersa precisione, il sottotono d’una costante visione ironica delle cose, il senso di un’imminente catastrofe tenuta provvisoriamente sotto controllo, la noia in agguato persino nella passione che è vissuta perciò sempre un po’ “controvoglia”. Vi si muove una coppia, un uomo e una donna che si riconoscono innamorati l’uno dell’altra, ma sono molto cauti e in qualche modo certi di una fine prossima del rapporto, forse perché lui è omosessuale e questo rende tutto un po’ fasullo come le immagini che dallo schermo televisivo li assalgono di continuo mescolandosi a volte con la realtà e aumentando la confusione. Non succede niente e succede tutto: la vita quotidiana, la malinconica precarietà dell’essere. Forse sono due sradicati, forse vivono all’estero e s’aggrappano l’uno all’altro come a una zattera, come due stranieri che hanno nostalgia di radici. Perché ecco un altro elemento molto forte in Mario Fortunato: la doppia appartenenza di meridionale cosmopolita, la “civiltà” un po’ asettica del Nord, e l’ “emotività” sempre un po’ perdente del Sud. Una delle sue più efficaci contrapposizioni, anche questa espressa però in modo sotterraneo e comunque “controvoglia”.