Da Beckett a Morante (L’Immaginazione n 306)

Da Beckett a Morante (L’Immaginazione n 306)

Mi piacciono le biografie, mi piacciono gli epistolari. E non posso non salutare con entusiasmo la decisione dell’Adelphi di pubblicare i quattro volumi delle Lettere di Samuel Beckett, dei quali è uscito ora il primo nella traduzione di Massimo Bocchiola e Leonardo Marcello Pignataro e che riguardano gli anni fra il 1929 e il 1940, anni che possiamo definire genericamente “giovanili” perché testimoniano di un’epoca di formazione in cui Beckett è ancora sconosciuto, eppure è già interamente lo scrittore che diventerà, interprete di una condizione umana disperata e finale, afasica e scarnificata, condannata all’incomprensione e al silenzio, per il quale: «Niente è dicibile». Leggere queste lettere ci mette in contatto diretto con quella folla di personaggi trafitti, disorientati e balbettanti, immobilizzati o sempre sul punto di disfarsi, cui fin dalla giovinezza lui, Samuel, dolorosamente somiglia. E ci mostra una parte segreta, desiderosa di contatto in un autore sempre schivo e taciturno, che evitava le interviste, sprezzante verso il successo, misteriosissimo e timido anche con gli amici capace di produrre, nell’arco intero della sua esistenza, un corpus di quindicimila missive, spesso scritte a mano e con una grafia al limite del comprensibile (e questa sì gli somiglia molto).

Ma torniamo in Italia per tributare un altro “evviva” al lavoro di Anna Folli, giornalista culturale di lungo corso, che ha studiato e raccontato in MoranteMoravia (Neri Pozza) la spinosa storia d’amore fra i due grandi scrittori. Era ora che ci si avvicinasse a Elsa e Alberto anche da questo lato e che lo si facesse (come ci insegnano altre tradizioni letterarie in cui il genere della biografia, del libro-testimonianza, del memoir è ben più praticato) con tanta delicatezza, perizia ed esperienza delle cose senza mai perdere di vista il centro dell’interesse: come lavorò questa tormentosa relazione nel produrre due opere così grandiose e diverse? Senza però stabilire pericolosi parallelismi vita/letteratura Anna Folli ci guida abilmente, semplicemente narrando i fatti, citando lettere, intervistando testimoni, a capire le distanti personalità artistiche come i due caratteri. Fu una tempesta continua fra Elsa Morante e Alberto Moravia: fughe, tradimenti, ripicche eppure reciproco sostegno. Un inferno. Eppure un rapporto interminabile, una necessità reciproca di essere vittima (lui) e carnefice (lei).

Confessò Moravia a Alain Elkann in una lunga intervista che divenne il libro Vita di Moravia (Bompiani): «Non volevo separarmi da lei, ma ucciderla, perché il nostro rapporto era così stretto, così complesso e in fondo così vivo che il delitto mi pareva più facile della separazione». Un rapporto “vivo”, appunto, che Anna Folli ripercorre e rende contemporaneo e che suscita ulteriori curiosità a cui un lettore non può trovare risposta che andando a leggere l’opera. Perché è nell’opera (privata come i sogni, diceva Morante) che troviamo la chiave di tutto: dell’esistenza di chi l’ha pensata e scritta come della nostra. E’ sempre un gioco di rispecchiamenti il rapporto autore/lettore. Va alimentato anche con la biografia, se possibile. Perché è così che le vite dei grandi diventano leggenda e che una tradizione alimenta un contatto più stretto fra i suoi artisti e la comunità in cui si sono mossi e hanno lavorato. Gli intrecci sentimentali fra Beckett, James Joyce e la figlia di Joyce Lucia, la follia di lei, l’irritazione del padre per la ripulsa di Samuel, come tutto questo si incastrò nei loro destini anche letterari, lo sapevamo già, ma le lettere aggiungono comprensione e calore come se quei personaggi fossero ancora fra noi. E così per Elsa Morante e Alberto Moravia. Leggendo il libro di Anna Folli li ritroviamo seduti a piazza del Popolo, li sentiamo bisticciare dalle finestre della loro casa in via dell’Oca, seguiamo le differenti forme che la loro amicizia prese, per esempio, per Pier Paolo Pasolini, scrittore che amarono entrambi moltissimo, e veniamo a sapere di un legame inestinguibile che li tenne perversamente uniti anche quando l’una e l’altro erano innamorati di altre persone.

Nel destino degli altri c’è sempre qualcosa di noi, perché c’è il mistero dell’esistenza: un disegno nel tappeto che si forma poco alla volta e che solo nella storia di altre vite, ormai concluse, possiamo vedere intero.

 

 

 

 

 

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