Immaginazione 308. Ricordo di Clara Sereni

Immaginazione 308. Ricordo di Clara Sereni

Clara Sereni

Clara Sereni si diceva «agli arresti domiciliari» per la sua malattia, che forse era la conseguenza di un tumore che credevo avesse risolto. Credevo l’avesse risolto da quando, sei anni fa all’incirca, me ne aveva parlato per la prima volta. Era venuta da Perugia a trovarmi in campagna (io sono nell’Umbria bassa, fra Orvieto e Narni) portandomi coloratissime presine fatte all’uncinetto da lei. Invece quest’anno, il 25 di giugno, mi ha scritto: «Mi stanco di tutto (anche di respirare, per capirci), e più stanchezza significa immediatamente più dolore. Per un verso non ne posso più, per un altro ho raggiunto una sorta di serenità buddista, che mi permette almeno di non essere depressa». Ultima lezione di stile. Il suo stile: secco, essenziale, onesto e vero. Dopo un mese esatto la notizia della sua morte, il 25 di luglio.

I libri e le presine. L’impegno politico e la casalinghitudine. La solidarietà femminile e la severità. Ricordo quando mi parlava delle “merendanze” quell’insieme di ballo e di merenda fra donne che le metteva tanta allegria – ci ha scritto pure un libro, Le merendanze, appunto (Rizzoli 2004). Non era contenta dell’accoglienza che il mondo intellettuale e in generale gli altri scrittori riservavano ai suoi libri. E non aveva torto. Pativa l’atteggiamento di sufficienza di chi ti relega nel tuo angusto angolino di “scrittrice donna per le donne”, che veniva purtroppo non solo da parte maschile.

Insieme a una presentazione ad Amelia (Umbria)

Eppure il suo libro forse più famoso, Casalinghitudine (Einaudi, 1987) l’aveva resa subito popolare. Anche perché in casa editrice aveva avuto l’appoggio prestigioso di Natalia Ginzburg, accanto a quello di Ernesto Ferrero. Natalia, che prendeva le distanze da tutto ciò che era troppo femminista, aveva criticato il titolo. E invece quel titolo divenne un felice neologismo in cui le donne si riconobbero immediatamente: un misto di rifugio e di solitudine. Un libro pieno di una grazia nuova, inedita, con le ricette a scandire la storia di una famiglia, una generazione, una donna. E un’amarezza di fondo che è in tutti i suoi libri, ed era anche nella persona, nella sua storia, nella smorfia malinconica che aveva la sua bocca persino quando sorrideva.

Nel 2012 presentammo a Perugia Una storia chiusa (Rizzoli) un libro in cui trovo una frase che la rappresenta forse più di tante altre frasi: «Quanta impotenza, quanta rabbia, quanta solitudine». Ecco direi che questi tre termini sono un emblema, il suo emblema, che però può assurgere a definizione della Vita, persino della vita dei più fortunati. Clara aveva inanellato una consistente serie di sconfitte, private e politiche, e quasi si può dire che se le andasse a cercare le sconfitte con caparbia insistenza. Perché era generosa e utopista. Faceva grandi sogni e cercava di realizzarli. Non tanto personali e non solo editoriali (penso alla bella impresa della casa editrice Ali&no in cui ha affiancato la direttrice Francesca Silvestri nella collana Farfalle), ma per una comunità, che poteva essere quella delle donne abusate, come dei portatori di handicap, come dei vecchi in ospizio. L’idea stessa di scrivere, per lei, non aveva senso come atto personale. Leggo in Taccuino di un’ultimista (Feltrinelli, 1998): «la sensazione di poter dare ordine, con le parole, al mondo: un mondo che nell’allinearsi delle righe, nell’accumularsi delle pagine, nel contenimento garantito dalla copertina, trova momentaneamente una comprensibilità, e la coerenza che alla vita non appartiene». E poi aggiunge: «Anche per la scrittura letteraria sento sempre il bisogno di una motivazione… Porsi un obiettivo di utilità significa comunque la speranza di incidere, scrivendo, sulla realtà».

Ultimista, ecco la parola che forse la sintetizza più di ogni altra. E’ lei stessa a darcene la chiave. Ultimista vuol dire «essere dalla parte degli ultimi». Una, lei, che non si è mai sentita una «scrittrice pura», ma che portava avanti prima di tutto l’atteggiamento residuale della sua generazione di «concepire la lotta politica come felicità». Ed è sempre in questa preziosa raccolta di testi sparsi, messa insieme controvoglia, che troviamo un autoritratto precisissimo diviso – dice – in quattro spicchi: ebrea, donna, esperta di handicap (attraverso un figlio “difficile”), utopista. Va in questo senso “utopistico”, se vogliamo, anche la collana Farfalle, da lei inventata e diretta e dedicata alla scrittura di viaggio al femminile. I diritti sono devoluti alla Fondazione «La città del sole» Onlus. Un altro esempio, nella sua vita, di legare l’impegno letterario a quello sociale.

Su questa utopia del “servire al popolo o il popolo” non eravamo troppo d’accordo. Io ero per la letteratura pura. Ma letteratura pura ne ho trovata tanta nei suoi libri, così come credo lei riconoscesse – almeno in parte – nella mia opera l’impegno “politico” di tramandare ai giovani il senso del passato. Mi basta pensare all’incipit de Il lupo mercante (Rizzoli, 2007), per esempio, con quelle bambine in abiti di piquet (che eravamo noi da piccole) prese a succhiare i fiori del glicine, mentre i maschi facevano i loro giochi di lotta. O ancora alle ricette di Casalinghitudine (a cui continuo a ricorrere nelle mie cene per gli amici): un modo di coniugare privato e pubblico. O alla ricerca di una casa nel centro di Roma di Via Ripetta 155 (Giunti 2015) altro grande romanzo sulla generazione del ’68, la sua, la nostra, che lei ha saputo raccontare dall’interno, come nessun altro, facendo della realtà Letteratura.

 

 

 

 

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