Trevi e Metastasio (L’Immaginazione n.310, aprile 2019)

Trevi e Metastasio (L’Immaginazione n.310, aprile 2019)

Pietro Metastasio

«Se a ciascun l’interno affanno/ si leggesse in fronte scritto,/ quanti mai che invidia fanno/ vi farebbero pietà». Era l’insegnamento di mia nonna per convincermi a non ritenere mai gli altri più fortunati di me. Nella mia ingenuità di bambina ero convinta che, poiché era stata maestra, le rime fossero farina del suo sacco per rendermi più facile memorizzare queste sue frasette arcaiche. Un’altra di queste “frasette” era: «Voce dal sen fuggita / poi richiamar non vale:/ non si trattien lo strale,/ quando dall’arco uscì». E ancora la più misteriosa: «E’ la fede degli amanti come l’Araba Fenice,/ che vi sia ciascun lo dice/ ove sia nessun lo sa». Non capivo, allora, cosa mai fosse questa fenice d’Arabia (un uccello magico, mi spiegava) e tanto meno capivo cosa c’entrasse la fede – per me esclusiva faccenda religiosa – con due innamorati…

Amelia Rosselli

Quando ho scoperto l’esistenza d’un poeta di nome Pietro Metastasio, il vero autore di quelle che a me erano parse fin lì poesiole alla portata di qualsiasi nonna, mi devo essere sentita defraudata. Eppure, nello stesso tempo, ho cominciato ad amare “il Metastasio” d’amore smisurato: lo scoprivo grandissimo e almanaccavo che l’orecchio poetico lo dovevo senz’altro alla mia precoce e svagata frequentazione dei suoi versi, e mi pareva che fra me e lui si fosse ormai stabilito un legame segreto, una relazione esclusiva… Idee infantili che non ti escono più dalla coscienza di te stesso e che comunque formano una parte importante del carattere.

Ciò premesso, come potevo non innamorarmi di un libro come Sogni e favole (sottotitolo: Un apprendistato) di Emanuele Trevi – uscito di recente con Ponte alle Grazie – che cita già nel titolo l’incipit di una poesia metastasiana? E la si trova declamata e ripetuta varie volte, intera, nel corso del racconto quasi l’autore volesse proprio ficcarla bene in testa pure a noi, che lo leggiamo inquieti e solidali: Sogni, e favole io fingo; e pure in carte/ mentre favole, e sogni orno, e disegno,/ in lor, folle ch’io son, prendo tal parte, che del mal che inventai piango, e mi sdegno…. etc. etc. E non solo per la profonda verità che vi si rivela sul temperamento artistico, su chi insomma s’identifica e crede alle fandonie che inventa, o perché dentro a Sogni e favole vedo Emanuele aggirarsi come “infestato” per via dei Cappellari cercando la casa dove Metastasio è nato e dove incontra subito altri fantasmi…. Per giunta, gli spettri che evoca Trevi li ho conosciuti personalmente, quando ancora percorrevano la terra: e il fotografo Arturo Patten, e la poetessa Amelia Rosselli, e un «padre» (il suo, di Emanuele) che è stato figura centrale nella mia vita di paziente analizzata…

Cesare Garboli

Insomma, ma che sto dicendo? Non si scrive così una recensione! Però io qui non voglio scrivere una recensione: intendevo solo dire che leggere Sogno e favole è un’esperienza dell’anima, anche se non vi frega niente di Metastasio, anche se Amelia Rosselli l’avete incontrata soltanto nei suoi versi e non sapete nulla delle persecuzioni da parte della Cia che andava immaginando, né di certi suicidi – quello suo e quello di Arturo – o di vecchi cineclub dove qualcuno piangeva nel buio rivedendo per l’ennesima volta un film di Tarkovskij (Stalker, se volete sapere il titolo), di vagabondaggi americani davanti alla casa di Marguerite Yourcenar, di un funereo festival di poesia a Castelporziano, di fotografi esaltati e bellissimi e disperatamente malati e finali di cui ho inutilmente cercato in Internet un ritratto, sì, di lui – Patten – che agli altri ne ha fatti tanti… O dei capricci di Cesare Garboli, quell’uomo «inquieto, curioso, ambizioso», seducente, teatrale, prepotente, dall’amicizia «ruvida, tumultuosa, imprevedibile», e di come passava nelle vite degli altri gonfiandole di emozioni e derubandole altrettanto, ma intuendo TUTTO.

Emanuele Trevi

Che poi è quello che ha imparato anche Emanuele Trevi, e per questo scrive come se ti prendesse sottobraccio e ti portasse a fare il flâneur insieme a lui (meglio se sotto la pioggia, per non avere scampo) e però ti consolasse della tragedia d’essere vivi, perché insomma la verità, se proprio ce ne deve essere una, sta in quel «qualcosa di buffo ed approssimativo e irrimediabilmente incomprensibile», e comunque illusorio, che siamo. Quel qualcosa che appare fulmineo dentro certi libri indimenticabili come questo, «un ibrido fra saggio letterario e seduta spiritica» per dirla col suo autore, libri biografici e autobiografici comunque inafferrabili, evocativi e silenti e persino spiritosi, ironici e autoironici, ma che alla fine ti lasciano dentro una sanissima voglia di piangere.

 

 

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