Giosetta Fioroni si racconta (L’Unità, 5/8/2010)
«Un’arte che intreccia apparire ed esistere», così Germano Celant conclude il suo lungo, importante saggio posto in apertura del volume bilingue Giosetta Fioroni, uscito all’inizio dell’anno per Skira: una monografia fondamentale, completa e appassionante, dove l’opera dell’artista romana, è accompagnata da uno scritto autobiografico, “istigato” dallo stesso Celant (mi ha detto Giosetta, che lei, all’inizio, aveva qualche resistenza e ora invece gli è molto grata proprio per il taglio storico-biografico). Il risultato è davvero speciale. In genere gli artisti non hanno grande dimestichezza con le parole, Giosetta Fioroni è un’eccezione: con le parole è a suo agio come un pianista col pianoforte, nel senso che ne conosce tutte le possibilità sonore, astuzie e pieghe, sa essere precisa, secca o affettuosa, ironica, crudele, insomma una grande affabulatrice. E i suoi ricordi personali s’intrecciano ai ritratti di tanti altri pittori, scrittori, protagonisti vari della scena internazionale. Per esempio, io che nutro una vera passione per Beckett, la ringrazierò in eterno per il ritratto che ne dà en passant in un bar parigino in una notte del ‘59 («L’altra sera, pieno freddo pungente, è arrivato e quando si è seduto e ha accavallato le gambe è apparsa una caviglia nuda…ha occhi impassibili, ma luminosissimi e stellari»). Pennellate così, graffi, tenerezze. Nessun autocompiacimento, tanta curiosità per gli altri, tanto amore per la vita, tanta passione per l’arte nelle varie forme che ha praticato lei stessa.
Ora però quel volumone di Celant lo metto da parte, già tanto se n’è scritto alla sua uscita. Se l’ho nominato è stato per il giudizio centratissimo: «un’arte che intreccia apparire ed esistere». Celant ha in questa frasetta messo a fuoco il carattere di Giosetta nel suo complesso, il suo segreto, quel miscuglio irresistibile di mondanità e autenticità. La incontro nella Casa Internazionale delle Donne, in via della Lungara a Roma, dove il 25 giugno si è aperta una mostra mercato di sue grafiche che andrà avanti fino a esaurimento. Ha messo generosamente a disposizione il cinquanta per cento degli introiti per fronteggiare i problemi di affitti arretrati della Casa, punto di riferimento, sostegno, incontro di tante realtà femminili cittadine, baluardo di un femminismo che non cede.
Giosetta viene spesso a cena nel ristorantino interno, ha una vecchia familiarità con questo posto, situato strategicamente fra casa sua e il suo studio. «Io vivo così, fra casa e studio e passeggiate al Gianicolo con Biri. Vado a Faenza e a Bologna per le mie ceramiche. Non mi sono mai mossa molto. Con Goffredo sì, ma la mia natura è sedentaria». Goffredo è Parise, naturalmente, la storia d’amore e d’amicizia centrale della sua vita e durata tutta la vita. Mentre Biri è un bastardino color arancio bruciato che ha salvato dalla strada, e che anche adesso scorrazza intorno, mentre parliamo, e che fra poco ci trascinerà nelle sue passeggiate voluttuose, al Gianicolo appunto. «Sono Biri Biroscante/ un cane preoccupante/ ho uno sguardo conturbante/ dal dolore lancinante…» dice la filastrocca che gli ha dedicato nell’album di cartoncino rosso fuoco Dog=Love, edito da Corraini in questi giorni e realizzato con disegni e collage.
Mentre andiamo (guida lei, spericolata e avventurosa) mi dice quanto ama la vita. «E’ meravigliosa, e invecchiando si acuisce il piacere estetico: la pelle abbronzata delle persone, gli sguardi dei cani, certi verdi, la forma degli alberi. Di Roma, poi, mi piace tutto. Come si farà a lasciare tutto questo proprio non lo so, io di vivere non sono stanca per niente, anzi… E non mi sono mai difesa dalla possibilità di innamorarmi. Solo da due anni a questa parte, però, non sento più di avere un corpo, questo è seccante della vecchiaia: una come me, sempre pronta alle infatuazioni…»
Le chiedo cosa la innamora nelle persone, negli uomini. «La mente, il cuore, l’acume. Quando sento discorsi originali ancora mi accendo, quando leggo un libro bello riesco ad astrarmi e la lettura la vince su tutto il resto»
Instancabile, sono le 19.30 di sera ma scendendo dal Gianicolo mi propone una scappata alla Galleria Lorcan O’Neill, dove espongono nuovi grandi dipinti di Anselm Kiefer dal titolo L’ordine degli angeli. Sono magnifici. Siamo entusiaste, e anche Biri, buono al guinzaglio, annusa l’aria soddisfatto.
Giosetta colloca Kiefer ai vertici dell’arte contemporanea. Ma il più grande di tutti, non ha dubbi, è Olafur Eliasson, «un danese di origini islandesi che vive a Berlino. Ha poco più di quarant’anni, è un vero genio». Mi racconta di quando alla Tate Modern, nel 2003, istallò The Weather Project. «Un impianto luce che si muoveva come in una vera giornata di sole. La gente si sdraiava per terra, veniva a tutti naturale… Vedrai questa estate: invaderà Berlino». E poi aggiunge senza mezzi termini: «Però l’arte contemporanea è piena di fregnoni. Quelli che mettono gli animali in formalina, per esempio, che poi imputridiscono pure…»
Le dico che una frase degli anni ‘60 della sua autobiografia nel volume di Celant (inevitabilmente ci torniamo) mi sembra che somigli ancora molto alla sua arte. La frase è questa: «A me interessava una cosa molto semplice, una certa narrazione legata a un’immagine cinematografica, che si ripete. Insisto sul fatto narrativo nel senso che ormai da un anno a questa parte, io ho cercato, desiderato di raccontare le cose…»
E’ d’accordo. «Le opere devono comunicare energia vitale, non bellezza. Un volto deve ogni volta raccontare una vicenda personale, deve interpretare non un sentimento, ma la sua storia. Ora mi piace lavorare con il trucco, penso sempre a questo adesso: alla trasformazione. Ma non è una novità, certo. Ho sempre lavorato in un modo o nell’altro sulle trasformazioni, anche quando pasticcio con la creta: forme mutanti. Il futuro è mutante. Uno degli ultimi quadri che ho fatto, molto grandi, 3 metri per 2, è ispirato a Merilyn Manson, quel cantante rock che si trucca in modo straordinario. E sto lavorando a una serie di foto “interpretate”, insieme al fotografo Marco Delogu. Io creo il set con protesi e oggetti fantastici. Ho comprato grandi orecchie, denti finti, nasi, ali… voglio trasformare me stessa con questi oggetti. Una vecchia passione di quando ero piccola: gli elfi, i mostri delle fiabe, grandi spaventi dell’infanzia. Che cos’è una strega oggi? Una persona sfregiata dalla contemporaneità».
C’è molto di mostruoso nella contemporaneità, le dico per stuzzicarla sulla realtà che ci circonda. «Ora dirò qualcosa molto poco corretta politicamente» è la sua reazione. «Io non ho un senso civile molto sviluppato. Il berlusconismo mi fa orrore, ma ci vuole poco. Mi sento disarmata, eppure non riesco a preoccuparmi sul serio. Vogliamo chiamarlo scetticismo? Succede sempre che una cosa che mi attrae esteticamente la vince su tutto e mi lascio trascinare, altre voci altre stanze…» Fa spesso riferimento, parlando, a questo titolo di Truman Capote per indicare l’affollamento sorprendente della vita, i nuovi capitoli, i cambiamenti improvvisi di scenario, di posti, l’eccentricità della vita, che è comunque «meravigliosa», i ricordi di persone che non ci sono più. Torna, per esempio, nelle sue parole il dolore per la perdita recente di un giovane amico scrittore, Rocco Carbone. «Devi leggere assolutamente il suo L’apparizione, un libro incantevole. Sto disegnando un suo ritratto in questi giorni. Mi manca tanto».
Ci separiamo nell’alone del suo buonissimo profumo, che mi resta addosso dopo il bacio che ci siamo scambiate salutandoci. Te lo volevo chiedere da tanto: che profumo usi, Giosetta?
«Una vecchia marca che è difficile da trovare. Si chiama Fracas di Robert Piguet.
Ne metto a fuoco l’aroma fresco, leggero ma intenso: tuberosa. Sarà difficile da trovare, ma lo troverò.