Addio a Roma

Addio a Roma copertina TITOLO: Addio a Roma
AUTRICE: Sandra Petrignani
CASA EDITRICE: Neri Pozza
DATA DI PUBBLICAZIONE:  2013
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“Due poeti si scambiano versi di notte sul Tevere: sono Pier Paolo Pasolini e Sandro Penna. Una donna bellissima e coraggiosa, fra molti amori e lotte per il potere, si batte per imporre l’arte astratta: è Palma Bucarelli. Uno scrittore giovane e già carismatico fa la spola fra Torino e la capitale per amore: è Italo Calvino. Un artista prestigioso e chiacchierato conquista la città con una mostra sensazionale: è Picasso. Una scrittrice cerca casa nel centro di Roma bisticciando con il marito: è Natalia Ginzburg. Un giovane americano scribacchia pettegolezzi sui giornali per pagarsi la casa in via Margutta: è Truman Capote. Pittori leggendari si arrabbiano in continuazione con le generazioni più giovani: sono Giorgio De Chirico e Renato Guttuso. Un marito e una moglie romanzieri litigano furiosamente in pubblico, ma forse si adorano: sono Elsa Morante e Alberto Moravia. Una grande poetessa austriaca e un importante autore svizzero si amano e si dicono addio in un Caffè di via del Babuino: sono Ingeborg Bachmann e Max Frisch. Un’icona della musica pop e un artista maledetto hanno un affair travolgente, ma lei lo lascia per tornare dal suo infedele innamorato: sono Marianne Faithfull, Mario Schifano e Mick Jagger. Un regista di fama internazionale e il suo più celebre sceneggiatore, che è anche uno scrittore meraviglioso, intrecciano, rompono, ricompongono una turbinosa collaborazione: sono Federico Fellini e Ennio Flaiano.
Tra fatti della vita e clamorose dispute letterarie e artistiche, nascita e morte di vivaci testate giornalistiche, l’irripetibile stagione che vide i protagonisti della scena culturale romana al centro di un interesse mondiale, dalla povertà estrema dei primi anni ’50, al furore della Neovanguardia, ai ribaltamenti del Sessantotto fino alla decadenza dei primi ’70, rivive in un colorato affresco per celebrare un recente eppure lontanissimo passato. Dalla ritrosia di Burri alle nevrosi di Carlo Emilio Gadda, dai sadici scherzi di Goffredo Parise alle scazzottate di Consagra, dalle perfidie di Anna Magnani al nuovo gusto camp di Alberto Arbasino, la città della Dolce Vita incontra la sua leggenda in un racconto fastoso e pervaso di ironia. A condurre per mano il lettore, fra via Veneto e piazza del Popolo, da una galleria d’arte a un set cinematografico a una libreria è una ragazza trasteverina, che si chiama Ninetta – come il Ninetto Davoli che ha svolazzato leggero in tanti film e versi di Pasolini – e che traghetterà il suo desiderio di diventare scrittrice da quell’epoca di grandi alla “nuova preistoria” contemporanea”

RECENSIONI:

Dov’è la vittoria? – Petrignani e l’Italia della cultura che non ha più voglia di affermarsi
di Paolo Barbieri | 8 dicembre 2013

Prosegue la serie di interviste di Paolo Barbieri sul declino del nostro Paese. La giornalista-scrittrice ricorda il fermento degli anni ’50: “Si voleva diventare grandi. Non famosi, grandi. E questa grandezza non era legata a un buon sostegno pubblicitario, ma era la conseguenza di un percorso, del valore, dell’impegno del fare artistico”

Giornalista e scrittrice, Sandra Petrignani vive a Roma ma si è ritagliata uno spazio per lo spirito nella campagna umbra. È da lì che guarda alle cose del mondo e dell’Italia. Autrice negli anni ’80 e ’90 del romanzo postmoderno Navigazioni di Circe (premio Morante opera prima), del Catalogo dei giocattoli, delle interviste a grandi scrittrici italiane Le signore della scrittura, e poi di La scrittrice abita qui, Care presenze, Ultima India, è un’autorevole voce della cultura italiana.

Lei inizia il suo libro “Addio a Roma” ricordando la magia dell’anno 1952 con l’inizio delle riprese del film “Vacanze romane” e il fermento culturale della capitale. Quali sono le differenze che nota oggi?
Le differenze sono tante, ma forse quella più evidente è il clima di allegria e fiducia nel futuro che c’era allora, nonostante l’enorme povertà in cui si viveva. Uscendo da grandi tragedie storiche e personali, ci si buttava nella vita con una fame di bellezza, leggerezza, affermazione, amore. E per affermazione non intendo arrivismo. Si voleva (almeno in campo artistico-letterario) diventare grandi. Non famosi, grandi. E questa grandezza non era legata – come oggi – a un buon sostegno pubblicitario, alla scommessa di una casa editrice o di un mercante su una determinata personalità, ma era la conseguenza di un percorso, del valore, dell’impegno del fare artistico. A decidere della grandezza di un singolo era la comunità o società letteraria, non il posto in classifica. Intorno al fare artistico c’era insomma un’aura. Oggi è esilarante, per non dire pietosa, l’inconsapevolezza e l’ignoranza di tanti che vogliono scrivere e si pretendono scrittori solo per aver messo parole in fila e aver costruito uno straccio di trama nella totale ignoranza di libri fondamentali che si sono ben guardati dal leggere. Roma, centro del mondo culturale. Da Pasolini a Moravia, da Fellini agli autori americani e poi gli artisti.

Roma come Parigi e di conseguenza l’Italia al centro del movimento culturale. Quando a suo giudizio è finita quella magia?
Anche se gli anni ’60 sono stati a loro modo grandiosi, ricchissimi artisticamente, letterariamente, cinematograficamente, musicalmente segnati dalla Contestazione studentesca e da rivolgimenti sociali molto potenti, è proprio in quel periodo che si è radicata la trasformazione, la perdita della “magia”, se vogliamo definirla così. Lo sviluppo del nostro paese ha sacrificato completamente, colpevolmente, la tradizione rurale, per una corsa all’industrializzazione, alla cementificazione sconsiderata, e favorendo l’asse Roma-Milano-Torino nei collegamenti, per dirne una, contro un’idea di armonia, di giustizia, di uguaglianza. Il favore di cui hanno goduto gli Agnelli è all’origine di tanti sbilanciamenti che hanno poi gravato sul Paese, sulla sua coesione. Si è radicata la contrapposizione operaio-padrone in un disegno parallelo a quel che succedeva in politica con la divisione manichea destra-sinistra. E oggi siamo ancora in questa logica, senza che si siano costruiti due partiti di possibile alternanza.

Il mondo continua a guardare a Roma, così come a Firenze e a Venezia, al Rinascimento e agli anni che lei descrive nel libro. Cosa non siamo stati capaci di costruire?
La coesione, la fierezza, il senso di essere un popolo al di là dei diversi orientamenti politici. Il senso dello Stato e dell’onestà rispetto alla cosa pubblica. In una società sana questo senso dovrebbe essere vincente e i truffatori una minoranza da perseguire. Da noi è successo il contrario. Ma non da oggi. Ho ancora nelle orecchie le parole di mio padre, quando ero piccola, che diceva che in Italia essere onesti equivale a essere considerati degli stupidi.

Pasolini utilizzò la metafora della morte delle lucciole per denunciare la fine di una certa Italia. Quali lucciole sono morte in questi anni?
La lucciola che avrei voluto consegnare a mio figlio è la possibilità di dirgli: «Bravo! Hai talento, sei generoso, sei colto, sei fiducioso: vai avanti così e fatti strada. Con queste doti le porte ti si apriranno per la forza delle cose». Ma è una lucciola che era già morta quando ho cominciato io a muovermi nei giornali, nella letteratura. Ho scelto di contare solo sulle mie forze, per una forma di orgoglio o di ingenuità forse – o perché mi sembrava che la lucciola non fosse morta, ma solo acciaccata – e naturalmente il mio cammino è stato – ed è – più lungo, accidentato, meno luminoso, molto meno facile, di quello di tanti altri che hanno saputo rapidamente adeguarsi ai tempi.

Qual è, a suo giudizio, il male più grave degli italiani? Siamo come scrisse Leopardi un paese senza spirito pubblico e dove, in quanto a morale più sprovveduti “di fondamenti che forse alcun’altra nazione europea e civile…?”.
Penso esattamente questo. E aggiungo: abbiamo non so quale maledizione che ci spinge a costituire sempre e dovunque delle bande. Per fortuna non sempre armate. Insomma siamo molto portati a «fare squadra», non coltiviamo l’orgoglio, la follia, l’irriducibilità, l’indipendenza che dovrebbe essere inscindibile da una personalità artistica.

Lei ha fiducia nella politica?
Quale politica? Ma come si fa a non avere fiducia nella politica, mi domando. Dobbiamo averla per forza. Dobbiamo cercare di eleggere le persone migliori. Non i partiti, le persone. Se no, dobbiamo arrenderci e dire: non ho fiducia nella società, voglio tornare allo stato selvaggio!

Un giudizio sui giovani italiani?
Sono per partito preso dalla parte della giovinezza. Proprio perché viviamo in società sempre più vecchie. Mi piacciono i giovani, italiani e non italiani, che non hanno ancora preso nei confronti della vita un atteggiamento opportunista. Mi piace la generosità della giovinezza, la possibilità dello spreco del tempo, del talento, dei sentimenti. I giovani sono quanto resta delle personalità artistiche non organizzate che non si vedono più in circolazione. Quando questi giovani vengono descritti solo per certi loro atteggiamenti esteriori, senz’anima, ironicamente e con superiorità dagli adulti, per fissarli come farfalle inchiodate da uno spillo a un’immagine ridicola da gag televisiva, penso che da buttare non siano loro, questi ragazzi misteriosi, ma i loro genitori pieni di sé e della loro inguaribile spocchia.


di Michela Murgia, Repubblica 2/12/12

Una fan fiction – recita Wikipedia – è un’opera scritta dai fan prendendo come spunto le storie o i personaggi di un’altra opera originale di natura letteraria, cinematografica o televisiva. Non credo che Sandra Petrignani sappia nemmeno che esiste una cosa chiamata fan fiction, eppure Addio a Roma, il suo libro appena uscito per Neri Pozza, rientra a suo modo correttamente nella descrizione di quel fenomeno, con la complicazione che l’opera a cui risulta ispirato non è un libro né un film, ma la straordinaria scena culturale di Roma tra gli anni ’50 e i primi anni ’70. Petrignani, con un artificio letterario in cui si è già dimostrata abilissima in La scrittrice abita qui, di quel mondo si pone a testimone con un realismo tale da convincere anche il lettore meno incline alla sospensione dell’incredulità a farsene complice insieme a lei. Come in ogni fan fiction che si rispetti, i personaggi non ha dovuto inventarseli: in quegli anni il romanzo del miracolo italiano camminava per i vicoli di Trastevere, beveva tanto al Caffè Rosati quanto nei più squallidi bar delle periferie, ballava la musica nuova nei locali, scriveva forsennatamente nelle soffitte e negli attici e esponeva tele mai viste sui muri delle cantine sopravvissute ai bombardamenti. Nel 1952 Roma è un solco aperto dove tutti i semi che ci cadono possono solo crescer bene. Mentre muore Benedetto Croce, fiorisce nell’opera di Fellini e Flaino quel potente immaginario che farà di Roma una cartolina affascinante spedita al mondo intero. Mette radici l’arte grazie all’intuito di Palma Bucarelli, bellissima e nevrotica madrina delle avanguardie più temerarie. Crescono soprattutto letteratura e poesia; nelle pagine di Addio a Roma i loro autori – gente come Calvino, Parise, Arbasino, Ginburg e molti altri – intrecciano aspirazioni d’eternità a passioni di piccolo cabotaggio con la naturalezza di chi tra la propria arte e la propria vita non veda in fondo alcuna differenza. Il Pasolini di Petrignani (tracciato su citazioni documentatissime) portava Moravia a cena in trattoria con i suoi ragazzi di strada, finché qualcuno di loro, ubriaco, non si addormentava addosso all’amico scrittore sotto gli occhi da divinità temibile di Elsa Morante. Vi compare anche Grazia Deledda, poco ma in modo sorprendente, una donna volitiva capace di imbastire una relazione extraconiugale con il critico letterario Emilio Cecchi, cessata solo su imposizione della moglie di quest’ultimo. Tra i ricami delle vicende dei nomi noti si infila l’ago sottile della storia diciottenne di Ninetta, unico personaggio non storico del libro, che offre al lettore la prospettiva fresca ed entusiasta di chi, camminando consapevolmente accanto alla storia, si ritrovi d’improvviso con la fortunata possibilità di allungare la mano e sfiorarle la veste. Ma Ninetta, alter ego nemmeno troppo nascosto dell’autrice, è anche l’araldo narrativo di un tempo diverso, che porterà in sé non solo la novità del ’68, ma pure i prodromi di quel declino culturale che farà dire amaramente a Flaiano: “coraggio, il meglio è passato”. Ninetta, destinata a sopravvivere a quel meglio, ha il volto migliore della modernità che ci è rimasta in mano. Sin dal titolo, con quell’Addio che annuncia un congedo definitivo, il libro rivela come nota dominante una sorta di malinconia da giovinezza perduta, il rimpianto per l’ultimo tepore di una supernova che ci ha messo quarant’anni a smettere di splendere, abbastanza da illuderci ancora di esserne noi il riflesso. Se non sapessimo che Sandra Petrignani era una bambina quando è avvenuta la maggior parte dei fatti che racconta, potremmo immaginarcela facilmente come un’anziana signora sopravvissuta al suo tempo per vedere tutti gli amici e i maestri andarsene prima di lei. C’è una memoria da vestale in queste righe, ma senza alcuna solennità. La sensazione che resta sulle dita non è di muffa devota: ha piuttosto il riflesso verde dell’invidia ammirata. A sentire la passione con cui Roma emerge da questo Addio, ritornano vere come un’accusa le parole del solito Flaiano all’inizio degli anni ’70, quando da piazza Navona guardava il Cafè Rosati pieno della nuova gioventù in cappelli lunghi e jeans e commentava ironico con Mazzacurati: “guardali, credono di essere noi”. Credere proprio no, non lo si è mai creduto. Ma volerlo, nessuno sa quanto.


da l’Unità del 2 dicembre 2012

Addio a Roma
Parla Sandra Petrignani: “Quanto era bella negli anni ’50!”

E’ un libro sul passato, ma ha scorte di vitalità assai più ampie che in questo presente tanto depresso. E’ un romanzo d’invenzione e insieme un lungo, polifonico racconto dal vero, che potrebbe indurre il lettore alla nostalgia e invece evita il rischio, attraverso un allegretto della scrittura che fa correre le pagine senza indugi passatisti. C’è un personaggio vero e proprio, Ninetta, che sogna di entrare nella società letteraria e ne scruta i rappresentanti con curiosità e incanto. C’è un personaggio ”dal vero”, l’attrice Paola Pitagora, di cui Ninetta diventa amica. E poi naturalmente c’è una folla di protagonisti della letteratura, dell’arte, del teatro e del cinema, tutti stipati miracolosamente nella stessa Roma tra gli anni Cinquanta e la metà dei Settanta.
Sandra Petrignani, con l’intento – fin dal titolo, Addio a Roma – di congedarli, in realtà li richiama a vivere, a raccontarsi, perfino a spettegolare. Direttamente, o per interposta persona. Grazie a un fittissimo dialogo con amici e testimoni d’eccezione.

Il filo romanzesco è la vicenda di Ninetta. E’ un personaggio emerso in corso d’opera o lo aveva in mente sin dall’inizio?

“Ninetta mi è apparsa subito, il suo è lo sguardo incantato di una piccola Cenerentola che scrive poesie e aspira a entrare nel mondo letterario. Un personaggio d’invenzione, a cui ovviamente ho prestato qualcosa di me, era necessario per guardare a questi personaggi con occhi liberi, freschi, senza troppi timori reverenziali e tuttavia con molto stupore, lo stupore della giovinezza. Ninetta accompagna il lettore nella società letteraria romana di quegli anni via via che li scopre”.

Era facile in quel periodo entrare nel mondo letterario?

“Più di quanto si creda. Erano molto importanti le riviste, che oggi hanno perso prestigio. Nell’epoca che ho raccontato, anche piccoli giornali fatti con due soldi potevano aprirti le porte dell’editoria, semplicemente perché circolavano fra gli artisti e gli scrittori, venivano lette, discusse. Non era il tempo degli esordienti da bestseller, da successo immediato, ma di avventurose e perfino esaltanti gavette”.

Per scrivere “Addio a Roma”, ha utilizzato molti materiali accumulati negli anni nelle vesti di giornalista culturale?

“Certo, molti dialoghi sono fatti di battute dal vero, raccolte dagli interessati con interviste fatte negli anni. Ma decisivo è stato il dialogo di questi mesi con amici e testimoni, che mi hanno svelato piccoli segreti, storie che non conoscevo, dettagli illuminanti. Molti li ringrazio a fine volume. Avevo bisogno di testimonianze fresche, di prima mano, che ricreassero la vita di quegli anni con dovizia di particolari. In Italia d’altronde la tradizione del memoir e della biografia non è radicata, e a volte, in lavori come questo, si naviga a vista con lo spirito dei principianti. O dei collezionisti”.

Lei è riuscita a evitare u n tono eccessivamente nostalgico…

“No sta a e dirlo, ma ci ho provato. L’antidoto alla nostalgia è l’ironia. Ninetta da un lato è incantata davanti ai suoi idoli, dall’altra riesce a vedere – con l’impertinenza della ragazza che è – aspetti anche buffi, a volte ridicoli. Volevo che i vari Moravia, Fellini, e tutti gli altri fossero monumenti, ma non troppo. Diciamo monumenti quanto meno realistici, con un po’ di aura ma senza aureola, quindi con tutti i difetti, le piccole gelosie, segni di lotte, cattiverie, colpi bassi inferti e ricevuti. Così accade di vedere il grande poeta Cardarelli che biascica mangiucchiando pavesini, o il pittore Turcato che scende in strada in pigiama cercando di rimediare la colazione. Lo sfondo è quello di una Roma bella ma un po’ stracciona, dove gli artisti campavano spesso alla giornata e facevano fatica a mettere insieme pranzo e cena, senza per questo perdere lo slancio, e l’entusiasmo. Eravamo quattro amici al bar, ha detto una volta Suso Cecchi d’Amico, ma stavamo facendo il cinema italiano. Vale anche per l’arte e per la letteratura”.

La dedica è a suo figlio Guido, che non ha ancora trent’anni.

“Non è il primo libro che gli dedico, ovviamente. Ma qui c’è forse un significato in più: la voglia di consegnargli un mondo, un’epoca che in parte ho avuto la fortuna di attraversare. Lo affido alla sua curiosità e a quella dei giovani come lui, non come un ingombro o un ostacolo a vivere il presente, ma come uno stimolo alla vitalità e alla passione che possono resistere anche nei momenti più difficili”.

Paolo Di Paolo


da l’Unità del 2 dicembre 2012

Coraggio, il meglio è passato
Punti di vista. Cronaca romanzata degli anni che vanno dal 1952 al 1975, con un o sguardo nostalgico a Pasolini

“Una volta un giovane diplomatico americano, incuriosito dagli aneddoti pruriginosi che giravano sugli scrittori,, riuscì a farsi invitare in viale Liegi. Ma se ne andò via deluso brontolando “Sono tutti marito e moglie, e quelli che sono amanti, lo sono da vent’anni!”. Dal suo punti di vista un ritratto della società letteraria romana piuttosto esatto”. Addio a Roma di Sandra Petrignani è la cronaca, a tratti romanzata, ma non importa, del quotidiano di intellettuali, scrittori e artisti in una Roma che, per sineddoche, è il fascio intricato di strade e case che da Via Veneto a Piazza del Popolo si allunga fino a Trastevere. Solo che la sineddoche, in questo scritto, non è mera questione di topografia o urbanistica, ma piuttosto il modo di raccontare una nostalgia che, per forzare un verso di Pier Paolo Pasolini, “ci fece stupendi”. E’ un punto di vista. Gli anni al centro di Addio a Roma sono, infatti, e dichiaratamente, quelli dal 1953 al 1975, tuttavia, il modo di scrivere e di osservare di Petrignani, trasforma questo intervallo di tempo – prolungamento e guaina della Dolce Vita – nel presente di chi legge. E dunque, per una bizzarra e pure struggente forma di sineddoche sentimentale, la Roma alla quale si dice Addio è anche la Roma di oggi. Che in qualsiasi punto del tempo, è già perduta. Il disgusto di Ennio Flaiano, il 20 gennaio del 1957, più che condivisibile, è contemporaneo “La nausea di questo maledetto momento che stiamo attraversando! Tutto diventa materia di esibizionismo e di rotocalco. Tutto viene preso sul serio in questo benedetto paese, eccetto le cose serie”. Le liti di Alberto Moravia ed Elsa Morante, che paiono di coppia, sono di rivalità letteraria, o viceversa, e sono il modello di molte coppie intellettuali, o almeno di qualche, e Pasolini che annota “il mondo non mi vuole più, ma ancora non lo sa”, fa una considerazione che capita a chi ha pensato di comporre la differenza tra sé e gli altri attraverso le parole. Il punto è che le azioni, le liti e gli amori raccontati da Petrignani echeggiano anche nelle nostre conventicole, solo che mancano Moravia, Morante, Flaiano, Gadda, Cardarelli e Fellini, la bellissima Palma Bucarelli. Il racconto e il catalogo rimane tuttavia così vivido che all’indicibile malinconia di assistere a un canovaccio sì eccelso ma con attori mediocri, o alle prime armi, si passa a un’ebbrezza ubriaca dove il sentirsi ridicoli è speranza di cambiamento.
Che una delle cifre narrative di Petrignani fosse la memoria sua e degli altri, era evidente già in opere come Le signore della scrittura (la Tartaruga 1984), Vecchi (Theoria 1994) o La scrittrice abita qui (Neri Pozza 2002). Ma è in Addio a Roma che questa particolare memoria collettiva diventa la malta per tenere insieme passato e futuro. Nel presente.

Chiara Valerio


Da La Repubblica/ Roma del 3 dicembre 2012
Il libro del giorno
di Marco Lodoli

Scrittori e poeti nella favolosa città del Novecento

Sappiamo che l’età dell’oro non è mai esistita, che ogni epoca ha avuto i suoi dolori e le sue tribolazioni: però leggendo Addio a Roma di Sandra Petrignani ci sentiamo trasportati con un soffio in un tempo migliore,. E’ un libro semplicemente imperdibile, un mazzo di rose letterarie offerte a chiunque voglia capire com’era la vita culturale di Roma dal dopoguerra fino agli anni Settanta, quali artisti la animavano, quali polemiche, quali storie d’amore: dal Neorealismo alle inquietudini sessantottine, da Guttuso a Schifano, dai pittori di via Margutta fino alle contestazioni più dure. In questo viaggio romano ci sono tutti gli artisti di quegli anni, dai mistici come Cristina Campo ai ribelli del Gruppo 63, da Penna a Pasolini a Moravia a Fellini. E ogni artista ha la sua storia, le sue passioni, le sue delusioni, e Roma è sempre intorno con le sue piazze, le trattorie e le librerie, le stagioni. Una città intelligente e sensibile abitata da gente speciale.


La Gazzetta del Mezzogiorno del 13/01/2013
Le visioni e gli amori del «mito italiano»
di Oscar Iarussi

C’era una volta una trattoria lungo la via Flaminia, non lontano da piazza del Popolo, dove artisti che sarebbero diventati celebri e molto quotati – la Accardi, Turcato, Consagra – mangiavano «di base carbonara e bollito, ma nelle grandi occasioni persino l’aragosta». Non potendo pagare il pranzo agli osti, i fratelli Naride e Domenico Menghi, regalavano loro di tanto in tanto un’opera. Magari tratteggiavano un disegno sulle tovaglie di carta e sul tovagliolo, o dipingevano murales sulle pareti del locale. Ve l’immaginate oggi? Quale ristoratore mai punterebbe sul talento dei bohémiens? 

Eppure sono storie così ad aver intessuto l’autentico «mito italiano» che ormai in patria neppure sospettiamo di poter far valere e sul quale, inconsapevolmente, viviamo di rendita nel mondo. Da noi, quando va bene, balugina l’idea di avere «un grande avvenire dietro le spalle», come Vittorio Gassman titolò l’ironica autobiografia. Quando va male, e quasi sempre succede, vige l’oblio o il ciacolaio televisivo e internettiano.
Invece agli aneddoti del genere «trattoria Menghi» corrispondono volti e storie, avventure intellettuali e relazioni sentimentali, amicizie indissolubili e contrasti violenti tra sodali, minima moralia e impareggiabili aforismi nei caffè d’arte, botte di vita e lutti inconsolabili. Sono i molti fili che tessono la trama di un bellissimo reportage narrativo, che vale anche da avvolgente amarcord collettivo. Un libro fluido, limpido come il Tevere che fu: Addio a Roma di Sandra Petrignani (Neri Pozza ed, pagg. 348, euro 16,50).
Emiliana divenuta trasteverina, giramondo per professione giornalistica e per passione (l’India nel cuore), impegnata in un femminismo letterario fin dalle «navigazioni di Circe» del suo esordio editoriale, Petrignani compie un viaggio nel tempo e nei luoghi della città eterna. Come già nel libro E in mezzo il fiume. A piedi nei due centri di Roma (Laterza, 2010), le soste contemplative dinanzi a un numero civico o a una finestra sbarrata, in un crocicchio o in una piazza, consentono all’autrice di squadernare un mondo.
Sì, Roma fu davvero caput mundi delle lettere e delle arti, del cinema e del teatro contemporanei e futuribili. È la Roma che nel 1952, l’anno della morte a Napoli del «papa laico» Benedetto Croce donde prende le mosse il racconto, viene attraversata dal ventisettenne borsista texano Robert Rauschenberg, destinato all’olimpo della Pop Art, squattrinato e affascinato dai Sacchi di Alberto Burri. Quest’ultimo viveva in un atelier in prestito a via Margutta, dal cui tetto filtrava pioggia. I passi non perduti dell’americano a Roma saranno ripercorsi sui medesimi sampietrini umidi o arroventati da tanti giovani talenti – fra cui i nostri sfortunati Rocco Scotellaro e Pino Pascali – che lungo gli anni Cinquanta e Sessanta s’inurbano per un mese o per sempre in cerca di fortune. Essi inseguono il sogno italiano, allora altrettanto vigoroso dell’american dream, a onta delle rovine materiali e delle macerie morali della guerra e del fascismo finiti da poco.


Addio alla dolce vita
Intervista a Sandra Petrignani

di Marco Balzano

L’ultima libro di Sandra Petrignani è Addio a Roma, uscito pochi mesi fa per l’editore Neri Pozza. È un’opera assolutamente originale, in cui allo stile garbato e allo sguardo approfondito che da sempre caratterizzano la prosa dell’autrice si aggiunge una novità tematica di grande rilievo: Petrignani si occupa infatti di ripercorrere i vent’anni più belli della storia recente di Roma, quelli che vanno dal Cinquanta al Settanta, dal Dopoguerra fino alla tragica morte di Pier Paolo Pasolini (1975). Presi per mano da una ingenua e meravigliata ragazza trasteverina, Ninetta, ripercorriamo strade e atmosfere, incontriamo gli scrittori, i registi, gli artisti di quegli anni – Moravia, Calvino, Morante, Ginzburg, Bucarelli, Fellini, Flaiano, Parise ecc. ecc. -, con le loro debolezze e le loro virtù, la loro dimensione privata, le loro poetiche e le loro idee. Si rimane incantati a vederli sfilare davanti agli occhi, tutti insieme, uniti e soli, persi in uno scenario cittadino che, nonostante appartenga al nostro passato recente prima ancora che alla nostra memoria storica, rivela una triste sensazione di lontananza dall’oggi.
Abbiamo incontrato l’autrice per farci raccontare come è nato questo libro, come ha lavorato per ricostruire quell’epoca e il profilo dei personaggi, come vive il rapporto con la sua città d’adozione, Roma appunto.

1. Partiamo dalla sua opera precedente, E in mezzo il fiume. A piedi nei due centri di Roma (Laterza 2010), una sorta di libro vagabondo, in cui Roma viene vista dal basso e dagli occhi di chi si riappropria di uno spazio che gli appartiene, ripercorrendo le strade fuori dai circuiti turistici e aprendosi agli incontri e ai compagni di passeggio più vari, registi e clochard, scrittori e negozianti di storiche botteghe. Addio a Roma sembra avere una continuità tutta particolare con il suo libro precedente e nello stesso tempo si presenta quasi come un “a sé” rispetto a ciò che finora ha scritto. È così?

Sì, è un po’ così, anche se è stato casuale. E in mezzo il fiume è un omaggio alla Roma contemporanea, e in particolare a Trastevere, il quartiere in cui vivo da qualche anno, quando non sono in campagna (in Umbria): vagabondaggio e chiacchiere con la gente che incontro per strada. Con Addio a Roma ho voluto guardarmi indietro: com’era la città prima di noi? Come vivevano gli artisti e gli intellettuali dalla ripresa del dopoguerra fino alla gran frattura del Sessantotto, del terrorismo, dell’assassinio di Pasolini? Mi andava di sprofondare in anni eroici, in un periodo in cui Roma era davvero il centro del mondo culturale: una calamita di genialità.

2. Parliamo di Ninetta. È dagli occhi di questa meravigliata ragazza trasteverina, infatti, che vediamo sfilare la vita di Roma e i personaggi più illustri che la popolano. Ninetta sembra più di un riuscito espediente narrativo per riscrivere la memoria storica di quegli anni. Pare che l’autrice intrattenga con lei un rapporto profondo. Si può parlare di un alter ego?

Certamente. Ninetta avrei potuto essere io se fossi nata nel ’40; le ho prestato qualcosa di me, soprattutto le ambizioni, una certa soavità del carattere, i pasticci sentimentali, la voglia di essere indipendente. In Ninetta si muove una nuova fisionomia femminile che in pochi anni sarebbe diventata di massa. E’ una femminista naturale, prima che esplodesse il femminismo. Entra mondo culturale esclusivo dalla porta di servizio, come è successo a tanti in quegli anni, e piano piano trova il suo posto, la sua affermazione.

3. La tematica della memoria emerge da sempre nei suoi romanzi – La scrittrice abita qui, Care presenze, Dolorose considerazioni del cuore -, ma anche dai suoi riferimenti letterari più illustri, penso al suo amore per Proust. Anche Addio a Roma, che pure si distacca dalla forma del romanzo strettamente intesa, può definirsi un libro sulla memoria? E in che senso questa memoria si è rivelata per lei urgente e ricca di significato?

Anzi, forse lo è in modo addirittura più esplicito. E’ un libro che ricostruisce rapporti, relazioni, sentimenti fra persone realmente vissute e che, guarda caso, si chiamavano Elsa Morante, Italo Calvino, Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini, Ennio Flaiano, Natalia Ginzburg, Goffredo Parise, Sandro Penna, Plama Bucarelli, Carlo Emilio Gadda, Pablo Picasso… Non si finirebbe più di nominarli tutti. Volevo fare un affresco di quell’epoca, ma un affresco animato. Sì, volevo riportarli tutti in vita. Per risentire le loro voci, guardarli negli occhi, per parlare con loro di libri, di quadri, di politica, di cinema. A volte mi annoia terribilmente la mia epoca. Ho appena appena fatto in tempo a conoscere personalmente qualcuno fra loro, e qualcuno più giovane è sempre in vita e attivo: riparlare del passato con loro è stato emozionante.

4. Non è facile collocare Addio a Roma in un preciso genere, e forse non è nemmeno così importante farlo. Però ci piacerebbe sapere se l’idea primigenia dell’opera è nata in lei con una forma differente da quella che il libro ha poi assunto in via definitiva. Vorremo cioè sapere se ha subito pensato a un personaggio che potesse prendere per mano il lettore per restituirgli la storia che voleva narrare, o se all’inizio è stata tentata da una forma più saggistica o, diciamo così, cronachistica che permettesse di esporre in modo lineare e neutro questa fantastica girandola di scrittori e artisti.

Ninetta è nata con il libro. Non lo avrei scritto senza Ninetta. Avrei potuto partire da me e dagli scambi che io personalmente ho avuto con Giulio Einuadi, Moravia, la Ginzburg, per dire. Ma non sarebbe stato molto interessante: avrei avuto in qualche modo le mani legate. Invece inventando Ninetta avevo carta bianca per trascinare la verità storica dentro una specie di romanzo. Vede? Ho detto “specie di romanzo”. La mia poetica si colloca proprio in questa locuzione: “una specie di…”, “un quasi romanzo”. Adoro che i miei libri siano un po’ imprendibili, inclassificabili. I generi troppo riconoscibili mi annoiano perché allora mi basta leggere un capitolo e zac: so già tutto della costruzione, che poi è la parte che più m’interessa in una storia. Mi piacciono gli autori capaci di sorprendermi e non per qualche colpo di scena o artificio, ma per come intrecciano il racconto senza farti capire dove stanno andando a parare. Due esempi contemporanei: Javier Marìas e Emmanuel Carrère.

5. Ho letto in un’intervista rilasciata di recente che anche i dialoghi dei personaggi hanno dietro un puntuale lavoro di ricostruzione, un elemento importante e niente affatto scontato, che aumenta il valore documentario del libro senza scemarne l’impatto narrativo. Ci racconta come ha lavorato per recuperare e assemblare il materiale e per coniugare questi due elementi?

Ho ormai un mio collaudato sistema di appunti, rimandi, archiviazione, sottolineature. Lavoro circondata da libri e quaderni d’appunti pieni di bandierine colorate con su scritte parole-chiave per orientarmi. A volte perdo la testa, mi confondo, non trovo quel che cerco. Divento pazza. ma poi trovo un’altra cosa, magari, che è proprio quella giusta. Senza una parte magica, medianica, senza un corpo a corpo coi fantasmi, non c’è letteratura. Mentre scrivevo questo libro, sentivo la mano energica di Palma Bucarelli sulla mia spalla che mi teneva inchiodata alla sedia, al computer. Non mi ha dato tregua. Nella mia follia penso che il libro, in realtà, l’abbia scritto lei. Sicuramente me ne ha suggerito molte parti.

5. A volte la storia sembra condensare un numero impressionante di geni in uno spezzone di tempo concentrato e scegliere un luogo ben preciso come palcoscenico della loro arte. Leggendo il suo libro la Roma degli anni Cinquanta-Settanta sembra rigogliosa di personalità straordinarie come lo era, mutatis mutandis, l’Atene di Pericle, la Firenze del Trecento o la Parigi di inizio Novecento. Quali sono, a suo giudizio, le ragioni principali che hanno permesso questo “miracolo”? Cosa aveva Roma più delle altre città?

Aveva la bellezza, l’aria cialtrona che t’illude di poterti distinguere facilmente se ti viene la battuta giusta, la storia giusta, la simpatia. Aveva la sofferenza della guerra appena conclusa e una voglia gigantesca di rinascere dalla cenere. Aveva che in fondo non era una grande metropoli e ci si muoveva e ci s’incontrava tutti in un gomitolo di poche strade. Aveva che il genio si accende nello scambio, nella competizione da Caffè, nell’energia della giovinezza. E aveva la generosità. Prendevi a scrivere in un giornale perché conoscevi un usciere, facevi del cinema cominciando come comparsa, buttavi giù una poesia, la recitavi al ristorante, e magari piaceva a Moravia che te la pubblicava su “Nuovi Argomenti”.

6. È inevitabile ritornare al presente. Chiudendo il libro si avverte un certo scoramento. Le strade di Roma non sembrano più le stesse – nemmeno la città è più quella – e passeggiando le possibilità di incrociare l’equivalente di un Pasolini, Flaiano, Fellini, Ginzburg sembrano nettamente minori. Come dice Flaiano, “il meglio è passato”? Davvero quegli anni sono già classicità e mitologia e a noi resta la “nuova preistoria”?

Ci sentiamo così depressi oggi, culturalmente e politicamente, che non ci conviene fare paragoni. Ma non sappiamo cosa succederà domani. Alla preistoria segue la storia no? Speriamo.

7. Il suo libro sembra ribadire un atto d’amore alla città già cominciato in E in mezzo il fiume. Atto d’amore e non omaggio retorico perché di Roma emerge non solo la bellezza ma anche le miserie e le contraddizioni. Può dirci qualcosa del suo rapporto con la sua città d’adozione? In cosa più di ogni altro è cambiata rispetto a quella descritta nel libro? Riconosce qualche significativo segno di continuità?

Il mio amore per Roma riguarda unicamente la sua bellezza, le sue pietre, i suoi colori, le vertiginose prospettive, gli alberi alti, gli angeli di marmo e di bronzo, le cupole celestine, le piazze dalla forma strana, la sinuosità del Tevere. Ma, per quel che riguarda la vita di tutti i giorni, è detestabile. Il cittadino viene costantemente calpestato nei suoi diritti. L’aerea urbana, e il suo centro in particolare, è terreno di scandalosi soprusi, sempre più simile a Napoli nell’invivibilità, nel frastuono, nell’occupazione indecente del suolo pubblico da parte di privati corrotti e arroganti.

8. Concludiamo con una curiosità. Il suo libro ricorda donne importanti e spesso bellissime. Come mai, tra tutti i personaggi citati, la scelta dell’immagine di copertina è caduta proprio su Palma Bucarelli? Il personaggio è trattato con molto garbo e direi anche con affetto, viene così da pensare che la sua evidente bellezza possa non essere l’unica ragione.

E’ stata una donna straordinaria, piena di fascino, intelligente, determinata. Capace di tessere alleanze, strategica. Con un’idea chiara sull’arte che l’ha portata a prendere posizione, a scontrarsi sia con la politica sia con avversari artisti e critici potentissimi. Una regina. Una personalità così interessante e fuori dal comune che in qualsiasi altro paese le avrebbero fatto monumenti. Da noi ne conoscono il nome pochi esperti del suo campo. Io stessa ho creduto per tanto tempo che fosse un’attrice dei telefoni bianchi! A scuola non me l’avevano mai nominata. Finché non ho conosciuto suo nipote Angelo Bucarelli, artista anche lui, e finché Angelo non mi ha fatto leggere una bella biografia scritta da Rachele Ferrario, finché non mi sono imbattuta in certi volumi fotografici, soprattutto quello di Lorenzo Cantatore e Edoardo Sassi, che la ritrae e la racconta con amore e vivacità, quasi in presa diretta. Me ne sono innamorata. Ho stabilito con lei, mai vista dal vero, un legame segreto, quasi spiritico. Sulla copertina c’è finita perché l’ha preteso, ne sono certa! Eravamo orientati sui soliti Moravia, Morante, Pasolini. Poi Palma si è intrufolata in un fotomontaggio, l’editore l’ha vista e ha deciso: «Ma che faccia straordinaria, mettiamoci solo lei in copertina!» E la mia più grande soddisfazione è stata sentirmi dire da Dacia Maraini: «Pazzesco. Palma era proprio così, come tu l’hai descritta. Ma come hai fatto senza averla mai conosciuta?» Sono andata al museo Boncompagni-Ludovisi a vedere, toccare (facendomi sgridare), misurare i suoi abiti, le sue scarpe, i gioielli. Mi sono comprata il suo profumo (che però a me sta malissimo). Insomma, non è una novità: gli scrittori sono matti da legare, senza innamorarsi dei loro personaggi, veri o inventati, non concludono niente.


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