Intervista a Erri De Luca (L’Unità del 20/2/11)
Già nel nome c’era la promessa di un destino eccezionale. Se dici Erri, dici lui, l’unico: Erri De Luca. «In principio era Herry, per via di una zia americana, che l’era piaciuto mi chiamassi così…» racconta. «Ma poi, già a Lotta Continua, sono stato per tutti Erri, semplificato».
Semplificazione e understatement, a fronte di un carisma che giunge al delirio. Soprattutto femminile. Ne ho conferma quando lo porto ad Amelia, in uno degli incontri pubblici mensili organizzati nella cittadina umbra dal Forum delle Donne con la mia complicità. La sala è strapiena, molti restano fuori e qualcuno (una donna, ça va sans dire) mi zittisce durante il discorso che faccio per introdurlo, perché vuole ascoltare subito e unicamente lui, Lui. Che tutto il tempo, sia detto a suo merito, non fa che schermirsi. Civetteria, sostengono i detrattori. Eppure Erri De Luca la notorietà se l’è conquistata concedendo tutto solo alla sua personalità ruvida e persino vagamente autistica, andando a pescarsi l’ostico terreno della parabola biblica, fuggendo da alpinista sulle montagne dove ben pochi possono seguirlo, e guidando convogli umanitari. E, fra i pochi della sua generazione ribelle, ha fatto seguire gli atti alle idee consegnadosi, prima di scoprirsi scrittore, a una carriera di operaio di cui conserva la fatica incisa nella carta geografica della pelle, nelle callosità delle mani. Anche di questo è fatta la sua leggenda. Ma se qualcuno osa dargli del Maestro replica drastico: «Io con i maestri non mi sono mai trovato. Nemmeno con i figli. Non sono mai stato padre, anzi sono rimasto figlio, pure mo’ che sono anziano. Non vedo gli esseri umani come maestri e alunni, adulti e minori, ma come gente, tutta uguale, buttata nel mondo fuori dal grembo accogliente della madre. Una volta usciti di lì, non siamo che commento di noi stessi. Tutto è già avvenuto. Poi dalla scuola me ne sono scappato, al liceo, prima di finirlo. Tutto quello che so l’ho imparato facendolo. Anche le lingue: le ho studiate senza scuole e senza insegnanti».
Pure l’ebraico, lo yiddish, il russo? «Eh, sì. Dopo che uno s’è ammattito sul latino, a scuola, può fare tutto. Il latino è stato il grimaldello per le altre lingue, morte e vive. Me le sono imparate sulle grammatiche e i dizionari».
Apriti cielo quando gli dico che a mio parere lui è un poeta, prima che un narratore, anzi non si capisce la sua narrativa se non la si legge con gli strumenti della poesia. Mi lamento, pure, che sia la parte meno popolare della sua opera. «Ma io sono un abusivo anche in letteratura! Come napoletano sono pratico di abusivismo… Scrivo libri piccoli perché mi sento un ospite del lettore (“ospite con le pagine del tempo di un lettore/ iscritto a niente, ospite incallito…” dice un suo verso, n.d.r.), che se ne va prima che si dica: ih, quant’è scucciante chisto! Ho un’idea molto alta del poeta. Il romanziere, no, può essere un cialtrone qualsiasi. Il poeta, invece, risponde con la vita, ha la responsabilità delle sue parole. Uno così era il musulmano Izet Sarajlic, visitato a domicilio da due guerre, quella mondiale e quella locale nella sua Bosnia disintegrata. Durante l’interminabile assedio di Sarajevo avrebbe potuto scapparsene, accettare l’invito dai tanti amici e istituzioni di altri paesi. Macché: è rimasto accanto ai suoi concittadini. Al ritmo dei suoi versi si erano combinati gli amori di tre generazioni, e allora diceva: “Chi è stato responsabile della felicità di un popolo, non lo abbandona nell’infelicità”. Lui mi ha insegnato una particolare classifica letteraria; infatti, per scaldarsi durante il primo inverno di guerra, aveva bruciato nella stufa tutta la saggistica (per ultimo Montaigne). Nel secondo anno era toccato ai romanzi (ultimo I racconti di Kolyma di Salamov). Durante il terzo finì nel fuoco il teatro (Cecov per ultimo). Al quarto la guerra è finita, se no sarebbe stata la volta della poesia».
Non è un libro di versi il prossimo di Erri De Luca che uscirà da Feltrinelli il 23 febbraio. S’intitola E disse. Gli faccio notare che l’introduzione al suo L’ospite incallito, firmata da lui, ha per titolo: “E non disse” e in quel non – sostiene – è il margine di libertà del poeta, che prende la parola nel silenzio della divinità. Dunque questo nuovo libro restituisce la parola all’onnipotente e la toglie agli uomini? «Il nostro uso quotidiano della parola è ormai solo pubblicitario, tende a vendere una marca, politica o altro. La bugia viene smentita il giorno dopo, come se niente fosse, senza conseguenze. Non c’è spazio per il non. M’interessa una parola che sopporta il peso delle conseguenze. Tutti i sei giorni della creazione sono preceduti da quella formula: e disse. Disse e fu. Se dice Luce, la Luce accade. Mosè, primo alpinista della storia, sale sul Monte Nebo, e riceve la promessa della Terra destinata agli ebrei. Non la vedrà, ma Dio gliela racconta. Ed era salito su un altro monte, il Sinai, ben tre volte, a prendere le tavole della Legge, vertice della parola incisa nella pietra, per poi tornare al campo base e trasmettere la rivelazione. Il libro parla di questo: la reazione di un milione e mezzo di ebrei che riceve i dieci comandamenti. E’ la storia delle loro risposte, loro che hanno accettato lo sbaraglio della libertà, di estirparsi da un paese in cui vivevano integrati per attraversare il deserto e stare accampati. La libertà è così, è azzardo. È inventarsi giorno per giorno».
C’è stato un momento nel passato recente in cui una generazione, la sua, la mia, ha tentato di vivere nell’azzardo, di mandare l’immaginazione al potere. Un fallimento? «Era solo sbagliata la formulazione, perché l’immaginazione è il contrario del potere. Bisognava dire: l’immaginazione al posto del potere. In realtà non ci siamo posti il problema del potere, costruivamo nell’intervallo fra due poteri. In quella sospensione praticavamo le nostre vite, realizzavamo il nostro programma; era questo Lotta Continua. Il rivoluzionario ha due possibilità: quella del bandito e quella di diventare capo di governo. A volte passa per tutte e due le cose, come Nelson Mandela, come l’attuale presidente del Brasile, Dima Roussef, mia coetanea, ex guerrigliera che è stata in carcere. Da noi non è successo niente di simile, siamo stati una generazione desaparecida, anche se in modo meno cruento di quella argentina. Ma considero valore che quella generazione non abbia voluto essere ricambio: la classe dirigente di oggi viene da tutt’altra parte».