Un incontro con Agota Kristof (Panorama 6/2/97)
Questa è un’intervista che feci ad Agota Kristof tanti anni fa. Ricordo che arrivai a casa sua, a Neuchatel in Svizzera, dopo un viaggio in treno estenuante, ero febbricitante e afona, non facevo che starnutire. Mi avevano detto che era una donna dura e antipatica e temevo che mi avrebbe messo alla porta. Invece fu gentilissima, cercò di curarmi con una tisana caldissima e delle pillole. Si preoccupò per me per tutta la durata dell’incontro. Nel salottino modesto dove stavamo sedute, mi colpì un manichino da sarta che stava in mezzo alla stanza come una scultura. Le chiesi se lo usava, se si cuciva da sola i vestiti. La risposta fu un no un po’ evasivo. Ma fu l’unico mistero, anche se mi era stata descritta come donna elusiva. Il meglio di quell’incontro allora non ho potuto scriverlo, perché troppo personale. Ricordo che quando le chiesi dei suoi uomini si stabilì fra noi una grande complicità; come fanno le donne entrammo subito in confidenza: io ero stata abbandonata un anno prima dal mio secondo marito e ancora mi bruciava, lei aveva molto sofferto per amore. Insomma, siccome, anche successivamente alcuni miei amici maschi, giornalisti e scrittori che avevano avuto a che fare con lei, ne riportavano sempre un’impressione pessima, odiosa addirittura, mi sono fatta l’idea che non avesse mai perdonato gli uomini di averla fatta soffrire. Ma, appunto, è solo una mia impressione. E ora ecco quella vecchia intervista.
Quando nel 1988 l’ editore Guanda tradusse il primo romanzo di Agota Kristof dal bel titolo italiano Quello che resta (in francese suonava Le grand cahier), pochi se ne accorsero. Eppure era un romanzo scioccante, oggi si direbbe estremo, un racconto che una volta letto non si dimentica più, capace di parlare del dolore e della ferocia con un’ essenzialità spietata e senza consolazione. Un libro
sulla condizione umana talmente “cattivo” da far impallidire di
vergogna tutte le operazioni variamente “cannibali” dei nostri giorni.
Giorgio Manganelli, da quel lettore onnivoro e perspicace che era, s’innamorò subito di questa misteriosa scrittrice ungherese e la faceva
leggere a tutti gli amici con la perentoria convinzione di chi ha fatto
una grande scoperta. Ma intanto, se in Italia si facevano orecchie da
mercante, il mondo intero scopriva Agota Kristof che da esule operaia
in un paese straniero (la Svizzera) diventava, come Cenerentola, una
scrittrice internazionale tradotta e premiata ovunque.
Dopo un secondo tentativo con La prova, caduto nel vuoto come il primo, Guanda smise di tradurla. Ora tenta l’Einaudi con un breve romanzo, Ieri, soltanto un poco meno spietato dei precedenti: una storia d’ amore addirittura, ma naturalmente “impossibile”. La traduzione è di Marco Lodoli, e francamente non si può iimmaginare penna
più lontana dalla lapidaria scrittura asentimentale della Kristof, che
ama dichiarare: “Io penso che si debba scrivere senza interiorità, con
lo sguardo di un bambino che è talmente oggettivo da sfiorare il
cinismo”. Non si può dunque dire adesso, senza confrontare l’originale francese se il leggero addolcimento che si
trova in Ieri, rispetto alle opere precedenti, sia dovuto alla
sensibilità del traduttore (che per altro si è mantenuto molto letterale, ma si sa: un tono è questione di sfumature, di respiro) o a un’ evoluzione nella visione
esistenziale della Kristof. Perciò l’ho chiesto direttamente a lei,
piccola donna bruna nata nel ’35, scappata dall’ Ungheria nel ’56 col
marito e una bimba di quattro mesi, riparata a Neuchatel “per caso” e
lì rimasta per i fatti della vita che la portava a separarsi e
risposarsi (con uno svizzero stavolta), ad avere altri due figli, a
divorziare di nuovo.
La casa è semplice e accogliente, silenziosissima. Le due figlie più grandi, una quarantenne e una trentenne, vivono per conto loro (la seconda a Parigi); il terzo, di ventiquattro anni, c’ è solo nei weekend: fa il libraio a Losanna. Anche Agota Kristof è
silenziosa, sorride spesso, anzi addirittura ride spesso, ma di quel
riso che non illumina i neri occhi protetti dagli occhiali da miope e
il visetto rotondo. “La mia visione della vita? Ma sì, è sempre la
stessa. La mia vita è stata molto dura. La vita in generale è piena di
dolore, di separazioni”. Ma non aveva sempre desiderato diventare una
scrittrice affermata? “Sì, era il mio desiderio più forte”. Allora
forse la vita, alla fine, s’ è dimostrata generosa. Ride, e smette
immediatamente di ridere. Ci pensa un po’ su, seduta sul divanetto come
fosse sulle spine dietro l’ apparente tranquillità. “Sì. Ma ora non mi
resta che attendere la vecchiaia”. Non vorrà dire che era meglio la
vita della sua infanzia e della sua giovinezza: se c’ è dell’
autobiografia, come è noto, nei suoi libri, devono essere state un
inferno. Dopoguerra in un villaggio ungherese, estrema miseria, ferocia
della vita quotidiana, il peso della politica nel privato dei
cittadini…
“Già, ma da bambini e da giovani, ci si ritaglia comunque
dell’ allegria. E poi c’ erano i miei fratelli. Con uno dei miei
fratelli, Jano, facevo davvero gli esercizi di sopravvivenza descritti
nel Grande quaderno, e facevamo anche giochi crudeli con gli animali:
volevamo diventare duri e insensibili per resistere alle avversità.
Eppure era un gioco, lo sentivamo come un gioco”. Dunque il vero dramma
è stato la fuga, quello scappare nella notte, senza avvertire nemmeno
la famiglia, senza un abbraccio ai fratelli, quel ritrovarsi soli in un
paese di cui non sapeva la lingua. “Io non me ne sarei mai andata dal
mio paese. Ho dovuto perché mio marito era impegnato in politica.
Insegnava storia, sarebbe finito in prigione dopo l’ invasione del ‘
56. Ma così ho perso la famiglia. Ci siamo rivisti dopo molti anni. Uno
dei miei fratelli è scrittore anche lui”.
In Ieri, Tobias e Line, i protagonisti, esuli anche loro, si conoscono in fabbrica. Sono due operai, ma Line è colta e vuole diventare insegnante, Tobias ha
azzerato tutto: vuole fare lo scrittore. “E’ diventando assolutamente
niente che si può diventare uno scrittore” dichiara il personaggio. E’ anche la
concezione dell’ autrice? “Sì”. E aggiunge con uno sguardo divertito:
“La storia di Ieri è autobiografica”. Corrono brividi lungo la schiena:
nel racconto ha infilato due coltellate. La prima è quella che Tobias ha
inferto al padre (padre anche di Line, ma lei non lo sa) prima di
fuggire dal suo paese e condannarsi all’ esilio. Una coltellata che
forse ha ucciso due persone: padre e madre mentre facevano l’ amore.
Tobias ragazzo ha affondato ben bene il coltello per uccidere tutti e
due, uno sull’ altra (saprà solo molto più tardi che non sono morti).
La seconda è inferta, ancora una volta da Tobias, nella pancia del
marito di Line. E di nuovo la vittima si salva. Non si può evitare la
domanda: pure le coltellate sono autobiografiche? Breve riflessione,
risata: “No, le coltellate no”. Chissà… “La storia è autobiografica” riprende la scrittrice “ma c’ è molta fantasia naturalmente. E i ruoli sono capovolti: io sono Tobias, non Line. E, sì, come lui penso che per diventare scrittore bisogna solamente scrivere. Leggere e scrivere molto. E poi buttare via molto”. Per esempio, Agota ha scritto assai di
più delle nove commedie pubblicate e rappresentate nel mondo
(soprattutto in Germania la amano come commediografa).
Il corridoio è tutto tappezzato delle locandine tedesche dei suoi spettacoli. Invece
in camera da letto, una camera monacale con letto singolo e una piccola
scrivania, mostra con allegra fierezza tutte le traduzioni dei suoi
libri. Le piacciono soprattutto le edizioni giapponesi. In Giappone
vanno pazzi per lei, quasi più dei francesi. Adesso, racconta, si farà
un film dal Grande quaderno, ma è ancora solo un progetto, non si è
deciso nemmeno il cast, nemmeno il regista. E’ contenta perché la
celebrità le ha portato i soldi (ne ha sempre avuti pochi) e perché le
permette di viaggiare, invitata com’ è nei vari paesi dove è stata tradotta. Nega che
la sua scrittura lapidaria, quasi infantile, si sia formata per i
problemi iniziali che aveva con il francese. Dice recisa: “E’ stata una
meditata scelta poetica”. E quanto al comunismo: “Un’ idea giusta
applicata male. Ma il capitalismo non è migliore. Nemmeno come idea”.
Proviamo a salvare qualcosa della vita, l’ amore forse? Ride: “Oh, sono
stata spesso innamorata! Ma adesso penso che non ho mai provato verso
gli uomini sentimenti molto profondi. Verso i figli, sì”. E la
letteratura? “Beh, la letteratura è tutto”.