Sulle tracce di M.Duras (Liberal, 18/8/11)

Sulle tracce di M.Duras (Liberal, 18/8/11)

Marguerite Duras

Quando dal Vietnam si passa in Cambogia, a sud, fra Ha Tien e Kep, si cambia scenario in modo repentino, e non solo scenario. Si fa un balzo indietro nel tempo, e non di pochi anni. Vengo da Gia Dinh, dove Marguerite Germaine Donnadieu è nata il 4 aprile del 1914, un sobborgo a nord di Saigon, l’attuale Ho Chi Minh City. Gia Dinh significa «perfetta tranquillità» e mai augurio fu più disatteso nel destino della bambina che un giorno del ’43 avrebbe cambiato nome in Marguerite Duras. Gia Dinh è un posto desolato fra due fiumi, uno piccolo e uno immenso, il Saigon e il Mekong, terra di risiere e d’acqua e di caldo umido infernale e di povertà. Marguerite ci resta tre anni, allevata principalmente dalla servitù, mentre il padre si ammala e torna in Francia a curarsi e poi viene arruolato perché è scoppiata la Prima Guerra Mondiale. Pure sua madre è malata. Marguerite ha la metà di un anno quando Marie Donnadieu l’abbandona nelle mani di un servo indigeno per otto mesi, perché viene rimpatriata per curarsi il paludismo. E’ una donna amara, Marie, e instabile. Non fa la vita che vorrebbe, la vita sontuosa dei colonialisti francesi in Indocina. Marie e Henri Donnadieu sono poveri anche in Indocina e il loro vantaggio di essere bianchi non basta a renderli graditi nell’alta società della colonia. Fanno gli insegnanti e si sono sposati, suscitando uno scandalo, appena cinque mesi dopo la morte della prima moglie di lui, grande amica di lei.

L’infanzia di Marguerite è esposta all’eccesso della geografia e dei sentimenti. Sua madre si ammazza di lavoro, è sempre esausta, scarmigliata, preoccupata, non ha tempo per raccontare favole accanto al letto dei tre figli, è dura, in ansia per la loro educazione, inadeguata al compito. Ma è intelligente, consapevole, e perciò rabbiosa. La notte resta sveglia a correggere i compiti e a tenere i conti, che non le tornano mai. Quando sua figlia adolescente darà scandalo (parola ritornello delle loro vite) frequentando un giovane uomo cinese, non esiterà a picchiarla, come del resto aveva sempre fatto. «Picchiava forte, sgobbava forte, era profondamente buona, era fatta per destini violenti, per esplorare a colpi d’ascia il mondo dei sentimenti» scriverà Duras, in un abbozzo autobiografico preparatorio al romanzo Una diga sul Pacifico che avrebbe pubblicato nel ’50 (l’abbozzo si trova in Quaderni della guerra e altri testi, nelle edizioni Feltrinelli). Sorprende quel «era profondamente buona», apparentemente contraddittorio, in verità centro incandescente della tragedia della donna che fu sua madre: essere profondamente buona senza poterlo esprimere con i propri figli, nemmeno con il preferito, il viziato primogenito Pierre che dalla predilezione di Marie fu probabilmente rovinato.

Il confine si avvicina. Sono diretta nei luoghi raccontati nella Diga, profondo sud, «località sperduta della Cambogia, tra la catena dell’Elefante e il mare» scrive Marguerite che ha quasi undici anni ai tempi del trasferimento in quel posto desolato per seguire il sogno infinito della madre, un sogno disgraziato: avere una grande risaia tutta sua, produrre riso, tanto riso, e diventare finalmente ricca. Sarà un’impresa fallimentare, lo sperpero di un piccolo capitale risparmiato in vent’anni di lavoro come funzionaria statale. Quante volte Duras ha scritto di questo, non del cinese, non dell’amante. Di questo: di sua madre e della sua sciagurata piantagione e del suo non riuscire ad amare la figlia, perché troppo aveva amato un marito scomparso e un figlio delinquente.

Vengo da Gia Dinh, da Saigon, da Hanoi, da Phnom Penh, da Vinh Long, da Sadec: le città abitate da Duras bambina in Indocina, negli affannosi traslochi di Marie. Non c’è traccia di Marguerite, ma qualcosa ho trovato invece dell’insegnante che fu sua madre nelle città del sud e nella capitale meridionale Ho Chi Min City, di cui preferisco il vecchio nome, Saigon, perché la geografia conserva nei nomi  antichi un suono remoto di favola. Cocincina, Tonchino: bastano questi suoni a riprodurre storie, musica, scene che non esistono più. In una scuola di Sadec, di cui Marie Donnadieu fu promossa direttrice, c’è ancora una vetrinetta con un servizio da tè che le appartenne. A Saigon, nella vecchia Rue Catinat (gli Champs Elisées cittadini dove gli alti alberi sono probabilmente gli stessi di allora) c’è ancora un cinema, l’Eden, diventato una sala a luci rosse. Ma basta, a ritrovare i tempi andati, immaginare il film muto che scorreva sullo schermo e Marie che suonava il valzer al pianoforte per accompagnare le immagini con i figli intorno, mezzo addormentati sui divanetti. Un’invenzione di Duras? Uno dei tanti espedienti della sorprendente Marie per arrotondare il magro salario? Leggenda e verità si alternano, si mescolano nei ricordi e nei libri della scrittrice.

Non c’è traccia di Marguerite, ma io l’ho inseguita lo stesso riempiendomi gli occhi di scenari che sopravvivono al passare del tempo, come sempre in Oriente; il progresso arriva al pari di un ciclone senza abbattere o cancellare il passato, ma ponendosi a lato: il peggior traffico, il più pesante inquinamento e la vita della gente in parte immutabile, i bilancieri sulle spalle per trasportare le mercanzie, i cappellini a cono in testa, il lavarsi nei fiumi, lo stare seduti per terra abbracciando le ginocchia, i gesti semplici di mani esperte a costruire reti per la pesca, pelare canne di bambù. Vinh Long è così, un pezzo di inizio ‘900 sul Mekong, verde di fitte mangrovie, con le acque invase dalle foglie carnose che nascono nel fiume e lo coprono a distesa, giacinti acquatici di cui si aspetta l’esplosione primaverile per venderli nel grande mercato sulle barche, gambi aggrovigliati, liane intrecciate che dondolano al ritmo delle lente risacche create dalle imbarcazioni.

Quando i Donnadieu si trasferiscono a Vinh Long da Phnom Penh, Marguerite ha dieci anni. Il padre è morto lontano, in Francia, nel ’21, e lei quasi non se n’è resa conto. Dirà più tardi che avrebbe sofferto di più, disperatamente, per la morte del suo cane l’anno successivo. A Vinh Long Marie e i suoi tre figli sono isolati da tutti. E’ una direttrice scolastica autoritaria, indisciplinata, pettegola, insinuante. Mette zizzania fra i colleghi e alleva una prole di selvaggi. In effetti il fratello grande di Marguerite, Pierre, è violento in famiglia e fuori, passa il tempo nelle fumerie d’oppio di Sadec e con le scimmie che addomestica in terrazza, mentre la sorellina fa il bagno nei rac, i canali che si diramano dal Mekong, con l’altro fratello, Paulo, quasi fossero indigeni. Però è anche studiosissima, Marguerite. E legge, legge, il suo amato Delly, e Shakespeare e Molière (che continuerà a leggere per tutta la vita); si difende così dai continui litigi in casa, e al diploma ottiene i voti migliori di tutta la Cocincina. «Soltanto per meritarmi il suo amore» dirà nel ’96 a Claude Berri in un’intervista. L’amore materno beninteso.

Nella casa dell'Amante

Nel ’28 Marie passa a dirigere la Scuola femminile di Sadec, considerata la più bella città dell’Indocina, che conserva ancora un suo fascino tranquillo e corroso, solo venti chilometri da Vinh Long. Mi hanno colpito, arrivando, le fornaci, incongrue costruzioni coniche dove si producono tegole e mattoni, vestigia di un’industria primitiva non priva di una sua sobria eleganza; non fossero fornaci si penserebbe a un museo moderno nato dalla fantasia di un archistar in umore nostalgico. Poi, a Sadec, c’è la casa dove hanno girato il film tratto dal libro L’amante, che non è la vera casa degli incontri fra il cinese e la giovanissima Duras. Quella non esiste più e, se esiste, chissà qual è: una qualsiasi casa d’appuntamenti presa in affitto in rue de Paris, viuzza di Cholon, la chinatown di Saigon, il quartiere del mercato dove è ancora possibile acciuffare un’idea d’Indocina alla Graham Greene. Alle pareti immagini del film con i bellissimi protagonisti. Non erano così belli Marguerite quindicenne e il suo amante cinese, che si chiamava Huynh Thuy Lê lúc tre, da lei ribattezzato Monsieur Jo, Léo, o più sprezzantemente il Cinese. La vera foto del vero amante è appesa altrove, nella casa dove visse con sua moglie, sempre a Sadec, dopo la conclusione del bollente osteggiato flirt, durato due anni, con la piccola francese e dove ora, nella penombra creata dalle imposte accostate, mi siedo per il tè e il ginseng candito, di cui sono ghiotta, a un tavolo tondo con tovaglia bianca di bucato, imbandito per i pochi turisti. Nella foto è ritratto con la moglie che sembra una bambina. Lui è magrissimo col viso triangolare e una grande bocca sorridente contro denti un po’ radi. Occhi intensi, molto scuri, un ragazzo qualsiasi di buona famiglia, molto passionale, che riuscì a rovinarsi la vita pure dopo quell’amour fou giovanile, innamorandosi della cognata e districandosi malamente in un doppio legame difficile da nascondere in una provincia così ristretta e chiacchierona. La ricchezza e la vita immorale gli costarono care durante la rivoluzione: le guardie rosse locali, prima di unirsi ai ribelli del nord, presero tutti gli uomini della famiglia e scavarono buche profonde nella terra morbida delle risiere. In ogni buco seppellirono in piedi un uomo fino alla testa, poi chiamarono i lavoranti dell’azienda, consegnarono loro delle pietre e li costrinsero a lapidare i padroni fino all’alba. Solo Huynh Thuy riuscì a mettersi in salvo. Così, forse, potrebbe essere vero quanto racconta Duras nell’ultima pagina dell’Amante. Che un giorno lui, «anni e anni dopo la guerra, dopo i matrimoni, i figli, i divorzi, i libri, era venuto a Parigi con la moglie. Le aveva telefonato. Sono io».

Duras a 15 anni

Durante il viaggio interminabile da Sadec al confine cambogiano penso a Duras, non penso ad altro in questo viaggio, che del resto ho fatto per lei. Ci penso con angoscia. Penso alle sue pazze mendicanti, al grido d’amore in India Song. Soprattutto penso all’inferno della sua infanzia, alla costante umiliazione, alla vergogna che provava per la madre e al suo amore senza fine per lei, mai ricambiato. Nemmeno a una madre l’amore per un figlio è concesso naturalmente. Succede pure questo: una madre che vorrebbe amare ogni figlio, ma non le riesce. Perché ne ama perdutamente uno solo, il meno meritevole, l’unico figlio concepito per passione e per illusione di un grande amore, poi rivelatosi un amore come tutti, né grande né piccolo, un amore comune che s’accende e finisce. Mi rendo conto di non pensare tanto a Marguerite quanto a Marie. Il suo destino giganteggia, è un personaggio da tragedia greca. Mentre in macchina, su strade sgangherate, procedo lentamente verso Ha Tien, verso il confine, verso Kampot, verso Prey Nop, dove Marie Legrand aveva finalmente ottenuto la concessione, rileggo quel romanzo straziante che ripercorre tutta la storia, Un  barrage contre le Pacifique. Letteratura e realtà, e a volte la realtà è persino più amara della letteratura.

Dunque ora sono a Ha Tien, sto passando il confine con un autista che parla un po’ d’inglese. Distinguo i cambogiani dai vietnamiti perché i cambogiani sono più poveri, spesso non hanno neppure una bicicletta e vanno a piedi. Sono frontalieri che fanno avanti e indietro per lavoro fra i due paesi. Ciabattine di gomma, cappellino a cono, pezze avvoltolate in testa come turbanti. Una vecchia, ma forse non è poi così vecchia, spinge un bicicletta sbardellata carica fino all’inverosimile di ceste. Ci sono anche diversi carretti rudimentali trainati da cavalli spompati, qualche motocicletta, qualche motorino, il casco è facoltativo. Poi un piccolo camion straripante di sacchi gonfi. I doganieri lo fanno accostare, cominiciano le discussioni. Un ragazzo, accovacciato sul tetto blu della cabina di guida osserva paziente dall’alto: è lì per tener d’occhio i sacchi, che non cadano durante il tragitto, gli spaghi che li imprigionano non sembrano adeguati al compito. Più tardi, durante una sosta, rivedremo il camion baldanzoso superarci con metà del suo carico e il ragazzo, sempre lassù, farci ciao soddisfatto.

Ci lasciamo alle spalle la dogana, benvenuti nel passato. Il cambiamento di paesaggio è clamoroso. Altro cielo altra terra, altra vegetazione, altre case, sarebbe meglio dire capanne. Incredibile. Forse non è tanto la geografia a essere diversa, ma è la sparizione repentina e totale del cemento a proiettarci in un mondo completamente differente. Innanzitutto la strada: è rossa, proprio rossa rossa, chiazzata di larghe pozzanghere, solcata dalle ruote che l’hanno percorsa. Marie Legrand Donnadieu, che a Sadec chiamavano solo Madame Dieu per stigmatizzarne le idee di grandezza, impiegava una notte e un giorno a raggiungere la concessione di Prey Nop, ottanta chilometri da Kampot, famosa per il pepe e la salsa di pesce. A volte faceva il percorso, 1600 chilometri fra andata e ritorno, in un fine settimana, perché non poteva permettersi di lasciare il lavoro della scuola, ma almeno per mezza giornata poteva tener d’occhio i dipendenti e ispezionare i suoi possedimenti.

Strada cambogiana

Aveva ottenuto la concessione alla fine del ’28, dopo anni di attesa e di preghiere e di minacce e discussioni con gli impiegati del Catasto. Avrebbe potuto approfittare di un decreto, qualche anno prima, che incoraggiava i francesi della colonia a coltivare terreni, 300 ettari concessi gratuitamente a ciascuno: ma Marie Legrand si sognava miliardaria e ne voleva 300 in più, il minimo secondo lei per arricchirsi sul serio. Da sempre è convinta che solo i soldi fanno la felicità. Così rifiuta l’offerta e aspetta e si batte per avere a buon prezzo una grande concessione sul Pacifico. La otterrà, in Cambogia, pagandola con i risparmi di una vita. Ma non sa che è una fregatura, un terreno scadente, invaso dal mare sei mesi l’anno. E’ il Natale del 1928 quando ci arrivano per la prima volta Marie e i figli. Un luogo meraviglioso «in culo al mondo» lo descrive Marguerite. Le strade per arrivarci, queste strade di polvere, sono state strappate alla giungla da tanti poveracci che ci hanno lasciato la pelle. Duras lo racconta nel Barrage e le popolazioni locali ancora la amano per questo, mentre il romanzo non vinse il Goncourt proprio per quella denuncia del colonialismo ancora difficile da digerire nella Francia del 1950. Marie Donnadieu, invece, nel libro vide solo la storia di una famiglia mostruosa e andò su tutte le furie. Anche i suoi operai ricevevano da lei un salario irrisorio per lavorare nella risiera, per costruire in mezzo alla palude, a due chilometri dal mare, un villaggio dove accamparsi. Marie, Pierre, Marguerite e Paulo vivono in una capanna su palafitte, probabilmente identica a quelle che troverò ancora oggi seguendo le loro orme; trascorrono in quella capanna di legno e di canne sei mesi di solitudine aspettando che il riso maturi. Ma in una sola notte, alla vigilia del raccolto, il riso viene distrutto da una violenta mareggiata. La loro palafitta resta isolata in mezzo all’acqua, Marie e figli passano otto ore in barca a verificare l’entità del disastro.

La stele che ricorda la risaia di Marie Legrand

Quando arrivo in zona, dispero di trovare il luogo esatto. Non ci sono indicazioni, nemmeno sulla guida, nulla di preciso, a menzionare la concessione di Marie, il luogo dove una sempre più inselvatichita Marguerite Duras maturò il passaggio della sua complicata adolescenza. Ho, per orientarmi, soltanto un romanzo scritto tanti anni fa. Intorno la giungla, questa vegetazione estrema, fitta, rigogliosa, che nasconde animali, occhi, respiri. Approdo in un ristorante all’aperto, ombreggiato di bambù, rinfrescato da grandi ventilatori, vista sterminata sul golfo. Claude, il proprietario sposato a una bellissima vietnamita dal piglio occidental-manageriale, è francese, ma è qui da talmente tanti anni che i suoi occhi si sono cinesizzati. La figlia, una bambinetta bionda con la frangia e i capelli liscissimi, è il frutto di un’armoniosa integrazione. Sulla tavola compaiono delizie saporite, pesci grigliati, verdure saltate, riso bianco, aragoste, granchi giganti. Claude conosce di fama la Duras, ma non sa niente del luogo che vado cercando lungo la costa, però mi dice di chiamare David Vincent che segue i lavori delle dighe. «Le dighe?» chiedo, e ricordo di aver visto lungo la strada cartelloni pubblicitari in cambogiano, dove erano raffigurati operai con l’elmetto al lavoro su qualcosa che poteva essere una diga. «Sì, i francesi stanno ultimando le dighe sul Pacifico per lo sviluppo dell’area» risponde Claude, ignaro dell’indiretta citazione.

Chiamo di corsa David Vincent: è in vacanza e sarebbe complicato spiegarmi la strada al telefono, ma mi dà un altro numero, quello dell’ingegner Samlong, con cui prendo appuntamento entro una ventina di minuti nel mercato di Prey Nop. E’ giovane, trentun anni, magrolino, sorride dolcissimo perché è colpito dai motivi che mi portano fin laggiù. Duras, certo che la conosce. La diga sul Pacifico, ha letto il romanzo. Conosce tutta la storia, la storia drammatica di Marie Donnadieu che, dopo la prima perdita del raccolto cominciò a delirare e a sognare una diga, una grande diga sul Pacifico. E la costruì, seguendo –  sosteneva – le indicazioni che il fantasma del marito le suggeriva nel cuore di notti insonni. Ma vennero nugoli di granchi nascosti nella sabbia a divorare il legno con cui l’aveva edificata. Un nuovo raccolto andò distrutto. Marie pensò allora a una diga in pietra, ma i massi erano intrasportabili per i suoi poveri operai che non avevano altri mezzi oltre le proprie spalle e le proprie braccia. Poi le venne un’idea grandiosa: utilizzare i tronchi di mangrovia. Le mangrovie crescono nell’acqua e non vengono attaccate dai granchi. Quel sistema funzionava, ma questa volta non fu la natura a rovinarla, fu il tradimento degli esseri umani. I suoi lavoranti, provati da un impegno superiore alle loro forze, schiavizzati da lei,  malpagati, affamati si ribellano. Anticipano il raccolto e lo vendono al coltivatore di riso di un podere confinante, poi scappano in Cocincina e non si faranno rivedere mai più. Marie allora si rassegna, improvvisamente smette di combattere. Tornerà alla sua risiera di tanto in tanto per riposarsi e «per sognare un po’», come si va in una casa di vacanza, fino al ’33, quando lascerà l’Oriente per rientrare in Francia. Niente più piantagione, niente più riso, niente più ricchezza.

Seguiamo il motorino dell’ingegner Samlong lungo altri sentieri di polvere rossa. Ai lati la foresta pluviale, palme, banani, kapok, canneti sterminati, mangrovie. Arriviamo in uno spiazzo dove un gruppetto di donne, all’ombra fra le palafitte sotto la loro capanna, in mezzo a galline macilente che becchettano in giro, mi guardano incuriosite. Della casa Donnadieu sono rimasti solo due piloni in cemento, al suo posto è stata piantata una tozza stele con una scritta bilingue, in cambogiano e in francese, che si legge appena perché molte lettere si sono cancellate: «Qui si ergeva la casa dove visse Marguerite Duras, fra il 1925 (sic!) e il 1933. In questo luogo trovò ispirazione per la sua opera “Un barrage contre le Pacifique”.

L'ingegner Samlong

Monsieur Samlong ci lascia, io scatto qualche fotografia. Le donne ridono. Un anno dopo il mio viaggio in Vietnam e Cambogia, ho conosciuto in Francia il figlio di Marguerite Duras, Jean Mascolo, chiamato dalla madre e ormai da tutti Outa, dal nome di un insetto che si scatena in agosto e che lo pizzicò neonato, nel ’47, durante una vacanza nella dimora estiva di François Mitterand, amico di famiglia. Gli ho raccontato delle nuove dighe sul Pacifico e di quella giornata sull’Oceano. Mi ha confermato che i lavori di costruzione delle dighe sono stati completati. «Ho conosciuto l’uomo che ha lavorato per otto anni al progetto, l’ingegner Vincent» mi ha detto. «La diga sul Pacifico esiste. Dove non c’era niente, ora non si muore più di fame. Il sogno di mia nonna è stato realizzato».

 

 

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