Dell’acqua e del nuoto (10/9/11 sul Foglio)

Dell’acqua e del nuoto (10/9/11 sul Foglio)

Monumento alla Sirenetta a Copenhagen

Gli sport sono strettamente legati ai quattro elementi. Che so: l’alpinismo all’Aria, il calcio alla Terra,  la lotta al Fuoco e, naturalmente, il nuoto all’Acqua. Forse per questo suscitano passioni fra le più potenti, istigano al coraggio, elevano l’essere umano a sfide che lo superano e portano la sua úbris a un confronto bruciante con la divinità. E pazienza se ne uscirà (l’essere umano) inevitabilmente perdente in un multiforme e ripetuto fallimento del volo troppo alto di Icaro. Nei quattro elementi «tutte le cose esistono e consistono» dice l’antica saggezza filosofica, ma in uno, in particolare, a me sembra che le cose esistano e consistano più che negli altri, o almeno con più diretta evidenza. Nell’Acqua. Acqua-origine della vita. Acqua-pesci, e noi siamo stati pesci tanto tempo fa. Anzi lo siamo sempre prima di nascere. Pesciolini nel corpo della madre, soavemente ondeggianti nella placenta. Stato di benessere eternamente rimpianto una volta gettati sulla dura terra a respirare aria corrotta e a vedercela con le battaglie infuocate della sopravvivenza, o semplicemente con il farci largo nel mondo per imporre il nostro vulcanico ego.

Se prendi un bambino di pochi mesi e lo butti nell’acqua, quello come se niente fosse si mette a nuotare. Esiste anzi una scuola di «nuoto neonatale» che attizza genitori naturisti a praticare lo sport con i loro neonati nella vasca da bagno per poi trasferirsi in piscina. Non per insegnare precocemente lo stile libero ai piccoli, ma semplicemente per restituire loro l’habitat in cui hanno felicemente sguazzato per nove mesi. I risultati sarebbero un più armonioso sviluppo psico-fisico e la sicurezza di non dover mai affrontare nella vita la paura dell’acqua. Che – sembrerà un controsenso viste le nostre origini equoree – è sempre in agguato. C’è gente che ha paura delle profondità marine, altra che si rifiuta di nuotare, altra ancora (la maggioranza) si contenta di non mettere la faccia sotto, perché si sente subito soffocare. Pare che la fobia abbia a che vedere con il latte andato storto da piccoli o con il trauma troppo sconvolgente della perdita di quel liquido prenatale in cui si stava talmente bene che è meglio evitarne anche il più lontano ricordo, oppure con un furibondo risentimento per la madre cattiva che a un certo punto, inspiegabilmente, si è rifiutata di respirare per noi e ci ha espulsi e separati per sempre dal calore cullante del suo corpo ovattato.

Ma per chi ama il nuoto è vero il contrario. L’acqua è attraente. «Acqua azzurra, acqua chiara…» cantava Lucio Battisti. Acqua riflettente. Acqua che, se ti tuffi dentro, t’inghiotte in un magico alveo di bagliori cangianti, ti separa e ti avvolge, gioca al vedo-non vedo, ti nasconde e accarezza, si apre e si chiude al tuo passaggio, molle e compatta. Incantata, appunto. Unico aspetto della materia visibile (dell’aria dimentichiamo facilmente l’esistenza) che ci sottrae allo smacco dell’impenetrabilità dei corpi. Il confronto di Leopardi con l’Infinito dalla sua panchina sull’«ermo colle» di Recanati è tutta una fantasia acquatica: «sovrumani silenzi e profondissima quiete», «tra questa immensità s’annega il pensier mio», «e il naufragar m’è dolce in questo mare». E se è vero che nell’acqua l’orizzonte s’accorcia, anzi sparisce, è perché l’immensità degli orizzonti interiori si sostituisce alla visione dello sguardo puntato sull’infinito. Non a caso un esercizio di meditazione orientale suggerisce di raggiungere il vuoto della mente visualizzando una pietra che cade dentro uno stagno, di seguirne il tuffo rallentato dalla spinta opposta dell’acqua, l’ondeggiare leggero fino al tonfo attutito e silenzioso sul fondo dove si alzeranno bollicine  luminose e sabbia.

Juliette Binoche in un'immagine riflessa di Film Blu

In Film blu Krzysztof Kieślowski sceglie una piscina deserta e poco illuminata per esprimere il tentativo di Julie di consolare, o per lo meno addolcire, la sofferenza del lutto. La protagonista, impersonata da Juliette Binoche, ha perso in un incidente automobilistico, di cui è l’unica superstite, il marito e la figlia di sette anni. Tenta di uccidersi quando è ancora in ospedale, ma non ci riesce. Ogni volta che il dolore diventa insopportabile, si rifugia in una piscina poco frequentata e nuota compulsivamente, una vasca via l’altra, dentro l’azzurro dell’acqua e dei suoi cupi riflessi nel quasi buio della palestra. Il blu, ha detto Kieślowski, va associato «all’idea di libertà dalla vita stessa». E’ tradizionalmente il colore dell’Anima, della calma e della profondità, rappresenta la quiete, la lealtà, l’evasione dai ceppi terreni. E’ anche, negli slang anglosassoni, il colore della tristezza. «Avere i blues»: essere in una condizione malinconica, quella della popolazione nera americana, che infatti ha inventato il blues.

Julie in quella piscina deserta nuota soprattutto a crawl che è lo stile più propulsivo, quello che offre il minor attrito e che persegue una velocità affilata, potente, la testa immersa a pelo d’acqua che si gira rapidissima per respirare senza abbandonare il contatto acquatico, ma quasi solo aprendo la bocca a somiglianza dei pesci quando si nutrono di bocconi galleggianti in superficie. E’ lo stile più adatto a chi non vuole pensare che al susseguirsi ritmato delle bracciate, allo sforbiciare costante delle gambe, alla leggera inclinazione verso l’interno dei piedi. Ma no, non è vero, che nuotare sia questo. Nuotando non si pensa mai alla posizione del proprio corpo, se non all’inizio, da principianti. Nuotare è aderire perfettamente a se stessi, mentre il corpo diventa fluido come l’elemento che lo accoglie, è insieme lotta di forze contrapposte e capacità di assecondare l’acqua. C’è tutto un vocabolario curiosamente pesante che lo accompagna: appoggio, presa, trazione, spinta, recupero. Nella bracciata del crawl, per esempio, il pollice incontra l’acqua disegnando un angolo acuto, si «appoggia» ruotando un po’ verso l’esterno perché la mano deve «prendere» l’acqua, spingerla sotto la pancia mentre il gomito è lievemente piegato, poi, sfiorando appena la coscia, riemergere. A questo punto il braccio «recupera» la posizione allungata e via una nuova bracciata. Su tutto domina la coordinazione, non solo dei gesti, testa, braccia, gambe, busto e bacino come un siluro, ma soprattutto del respiro. Quella sensazione di soffocamento e fatica insopportabile che hanno i nuotatori inesperti deriva dalla mancata coordinazione del respiro con il movimento corporeo. L’aria, nemica dell’acqua, deve entrare nei polmoni al momento giusto, nella quantità giusta, con calma persino nella fretta di una gara. Semmai è l’esplusione a essere, almeno nel contesto agonistico, esplosiva.

La piscina buia di Film Blu

Julie nuota anche a dorso, lo stile riposante, l’unico che prevede la faccia rivolta in alto e dunque il preferito da chi nutre fobie da immersione. Però ha il grosso handicap che non si può guardare in avanti e si procede in qualche modo verso l’ignoto. Nella bracciata, in questo caso, l’incontro con l’acqua spetta al mignolo perché la mano è rivolta verso l’esterno mentre il braccio sfiora l’orecchio. I guai grossi col dorso arrivano a questo punto: sulle posizioni dell’avambraccio sott’acqua regna la confusione, almeno fra i dilettanti; c’è chi lo affonda troppo, chi lo lascia rigido riaccostarsi al corpo lateralmente, chi dimentica la «frustata» con cui la mano rapidissimamente deve volgersi verso l’interno spingendo la massa d’acqua per avanzare. Intanto il corpo, trasformatosi in una vite che penetra il muro liquido, «rolla». E le gambe? Le gambe nel dorso sono bellissime: ballano, danzano, morbide e severe, i piedi due pinne che giocano con caviglie estremamente flessibili, che si affacciano in superficie mostrando appena le punte scanzonate. Attenzione: mai tirar fuori le ginocchia! Ma qui certo bisogna menzionare il morto a galla, felicità infantile di primi incontri sregolati con mare e laghi al di fuori della disciplina del nuoto, in aperta insubordinazione al claustrofobico spazio di piscine puzzolenti di cloro, regno di precoci terrori imposti dalla legge del padre, dove infreddoliti e minimi si conosce l’umiliazione del rapporto servo/padrone, militaresco, sproporzionato. Il morto a galla è espansione libera, esperienza della fine come arresa perdita di peso e di forza, coincidenza con il voluttuoso spampanarsi del fiore, penetrazione, non nostra dell’acqua ma dell’acqua in noi. Per chi ha i capelli lunghi, poi, il piacere dello sfilacciarsi delle frange, confini che superano se stessi e si frantumano e si moltiplicano: incomparabile. Il morto a galla è pensato in genere supino, ma la variante a pancia sotto non è male con le braccia e le gambe che, invece di spandersi, affondano molli e ci propongono posizioni ondeggianti di cadaveri alla deriva.

Per quanto riguarda la rana: basta il nome. Eccoci trasformati in ranocchi dalle zampette che disegnano un rombo e spingono il corpo in guizzi saltellati. Le mani si fanno spazio senza complimenti dividendo le acque davanti come fossero il Mar Rosso e poi raccogliendosi quasi volessero pregare. Fondamentali i piedi a martello che, a ogni gambata, infondono una bella sferzata alle reni (per questo è uno stile sconsigliato a chi ha problemi di schiena e di rotule). Ma piace tanto alle signore che non vogliono bagnarsi i capelli e, in barba alle regole elementari del nuoto e della salute, lo praticano tenendo alta la testa fuori dall’acqua e rischiando il torcicollo.

Dustin Hoffman nel Laureato

Il delfino, o farfalla, ne è una variante più elegante in cui le gambe si saldano trasformando i praticanti in ondulate sirene dai sederi sodi e sferzanti che occhieggiano ritmicamente in superficie in un sensuale dentro/fuori l’acqua. E’ lo stile più trascurato, perché il più faticoso, eppure forse è il più bello a vedersi, nel senso che il corpo nella farfalla esprime al massimo la sua eleganza marinara, la sua potenza e sinuosità. Proviamo a scomporlo, cominciando dal prodigioso avvio, infiltrandoci sott’acqua. Ecco che l’atleta si tuffa e subito diventa una meravigliosa creatura d’altro regno, una sirena o un tritone al seguito del dio dei mari Poseidone. Si tuffa dritto come un fuso, le braccia tese in avanti, strette ai lati della testa, mani una sull’altra, e procede in apnea quasi sul fondo della vasca per qualche metro, risalendo verso la superficie a svelti colpi di coda, pardon di gambe, quasi saldate l’una all’altra, tutto un guizzo flessuoso del corpo, una danza da delfino che schizza fuori e si rituffa festoso seguendo le navi in un affettuoso saluto. Fa forza sui reni e sulle braccia il nuotatore, due gambate ogni bracciata, la prima propulsiva, la seconda di sostegno alla respirazione, che richiede un poderoso colpo di reni per l’emersione e intanto su le braccia a disegnare un cerchio mezzo dentro mezzo fuori dell’acqua. Mai il corpo somigliò di più a un’onda. Si dice che il delfino non sia solo una forma del nuoto, ma un culto. Lo praticano bene quelli che in qualche recondita piega dell’essere non hanno completamente perduto l’antica identità di pesci. Più che per gli altri stili, non basta conoscere la tecnica, ma occorre affidarsi a un segreto naturale istinto ondulatorio, una sorta di danza tribale, la confusa lontana parentela coi rettili acquatici.

E, già che ci siamo, chiariamo una volta per tutte la confusione di due stili che sono uno con due nomi diversi. Perché farfalla e perché delfino? La storia è questa: dalla rana venne prima la variante a farfalla, uno stile misto in cui le gambe si comportavano come nella rana, ma le braccia sgusciavano fuori dall’acqua effettuando una rotazione completa per potenziare la velocità con un caratteristico effetto svolazzante. Fu poi introdotto un movimento delle gambe che imitava il nuoto dei cetacei, complicato successivamente dalla doppia spinta cui si deve la caratteristica flessuosità dell’andatura, e fu detto perciò «delfino». Ma questo era uno stile in tutto e per tutto diverso dalla rana, e così venne codificato col suo nuovo nome e le sue regole. Oggi le due designazioni sono praticamente sinonimi.

Che stile usava Il nuotatore di John Cheever, quando per scommessa passava da una villa all’altra attraverso il fiume ideale delle piscine, un «fiume» che chiamava Lucinda col nome della moglie, per raggiungere casa sua, a nuoto, in un percorso di una quindicina di chilometri? Il crawl. Un «crawl irregolare», addomesticato, casalingo, noi diremmo «stile libero», che lo porterà dalla leggerezza di una pazza scommessa alla rimossa scoperta della verità su se stesso e dei suoi fallimenti. Sarebbe arrivato morto a destinazione se avesse osato il delfino! Avrebbe sbandato nuotando a dorso, e ci avrebbe messo una vita scegliendo la rana. Nuotano a crawl anche i protagonisti del Coltello nell’acqua di Roman Polanski sotto la minaccia del giovane ospite che s’impadronisce, inesperto o finto tale, della loro barca a vela. La rana è uno stile femminile, lo nuota Valeria Golino in un film, non del tutto riuscito ma pieno di bellezza, di Giuseppe Piccioni, Giulia non esce la sera, dove il carattere maschile (Valerio Mastandrea) si esprime preferibilmente a stile libero. Il film si svolge per molte scene in una piscina, con qualche rimando notturno a quella di Film blu. E chissà come stava nuotando Ursula Andress poco prima di emergere dal mare, novella Venere, sotto lo sguardo ammirato di un asciutto giovane Sean Connery nel leggendario Agente 007 dalla Russia con amore. In quella celebre inquadratura Ursula ha la maschera tirata sopra la testa, un coltello intorno ai fianchi snelli e due grandi conchiglie raccolte nei fondali, dunque è andata in immersione, elemento non trascurabile del rapporto con l’acqua.

Perché a saper vincere in affondamento la resistenza marina si sperimenta la straordinaria sensazione di entrare in un gigantesco acquario a tu per tu con le trasparenze dei pesci, con la loro curiosità e i loro tentativi di assaggio dei nostri buffi nasi. Si naviga nel silenzio spettrale d’un altro mondo, si raggiunge il regno della Sirenetta (fiaba fra le più crudeli di quel buontempone di Hans Christian Andersen) purtroppo decisa per amore a separarsene, affrontando le tragiche conseguenze dell’incarnazione. L’idea d’immersione porta con sé inevitabile quella dell’inabissarsi e dell’affogare con l’immagine-simbolo del Titanic, il suo lento sprofondare con tutte finestre illuminate e i passeggeri che continuavano a ballare, rappresentazione colossal della fine di un’epoca. Virginia Woolf ha scelto invece un fiume per mettere fine ai suoi giorni, ma prima aveva riempito libri e libri, dalla Crociera alle Onde, d’acqua di tutti i tipi per finire, con l’ultimo romanzo, Tra un atto e l’altro, a fantasticare intorno a uno stagno pieno di ninfee dove fanciulle pazze d’amore potevano desiderare di uccidersi e dove invece, meno tragicamente, «un granello cadde giù a spirale. Un petalo cadde, si riempì d’acqua e affondò». Molta, nei libri della Woolf, era innocente acqua racchiusa in bicchieri e in vasi di cristallo dai riflessi cangianti come quelli delle piscine.

E proprio in piscina si conclude Il grande Gatsby, essendo Francis Scott Fitzgerald uno degli autori meglio forniti, nelle trame come nella vita hollywoodiana, di piscine e di nuotatori esperti. Gatsby, massacrato dagli spari, va alla deriva su un materassino di gomma che capricciosamente lo trascina qui e là, sospinto dal «getto fresco che fuoriusciva da un’estremità della vasca per dirigersi verso lo scarico sul bordo opposto». Meglio vestirsi da palombaro, allora, come il Peter Pan-Dustin Hoffman di una scena culto del Laureato, e starsene sul fondo (ancora una volta di una piscina) al riparo dal mondo insopportabile degli adulti.

 

 

 

 

 

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