Sui versi di B.Frabotta (Il Foglio, 22/3/12)
«Vorrei che le avesse portate/ fin qui il vento, queste piume./ Un vento grigio sotto la mimosa./ Ma sono qui da tanto, pegno/ di un gioco di pazienza/ tra la tortora e la volpe». Cosa si potrebbe aggiungere a commento di una poesia così tersa e disperata? Dire lo strazio insopportabile della carne, del dolore fisico e psichico? L’indifferenza tragica della sopravvivenza a spese dell’altro? Perché la tortora è predestinata al volo, ma anche al sacrificio per il gioco affamato, o anche no, della volpe, e la volpe sarà preda del cacciatore, o anche no. E’ il caso a decidere, gli Dei o un dio bambino e capriccioso che le sbaglia tutte. Ma la poesia non ha bisogno di commento, basta a se stessa e ogni aggiunta la impoverisce, quando è poesia carnale, affettuosa, mesta, tessuta con l’autenticità di un pensiero e di una vita che scorre precisa sotto ogni verso, come questa di Biancamaria Frabotta nel libro sodo e rigoglioso dal bel titolo echeggiante che suona monito, avvertimento: Da mani mortali (Mondadori).
Poeta-giardiniera Frabotta ha sempre rapporto con la terra che manipola come gli avi, «mite terra conosciuta sin dall’infanzia, lavorata nei secoli da mani mortali» dice in un autocommento. La presenza della natura è insieme assillo e consolazione della fragile creatura viva, essa stessa, la natura, esposta alla meraviglia della luce come al tradimento delle stagioni («In campagna ogni gemma soffriva/ nel falso turgore dei getti traditi»). Ma il confine fra vita e morte è debole, slabbrato. Capita, nel rivoltolarsi della zolla che non si sappia più se a parlare, a guardare, siano i vivi o i già morti. La pervasività di questo doppio sguardo, quello dei vivi sui morti e quello dei morti sui vivi è uno dei punti di forza di questa poesia in cui gli esseri umani, gli animali, le piante sono accomunati da tanti occhi invisibili (quelli di un dio che non protegge e anzi forse si prepara a sferrare il colpo?) e descritti con una pietas dolcissima.
Eppure allo scacco una risposta dei viventi è possibile. E’ l’amicizia, è l’attività di gesti significativi, «opere, azioni e parole, forse inutili, ma non futili» come spiega l’autrice che fa chiaro riferimento al pensiero di Hanna Arendt. Con la filosofa tedesca riflette sulla differenza fondamentale fra eternità e immortalità e sull’insolubile problema della condizione umana che riecheggia inevitabilmente lo «scalcinato muro» montaliano su cui proiettiamo solo l’ombra di «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Ma anche gli amici devono lasciare andare gli amati morti come chiede Patroclo ad Achille in un commovente «falso omerico» che blandamente deride la ubris vendicativa maschile. Ed è chiaro che Frabotta è tutta dalla parte di Patroclo, coscienza inquieta e consapevole, unico eroe di sensibilità femminea di quel bellicoso mondo classico da cui oggi di più ci allontana «lo scarso dirsi di Dio» di un’altra breve, folgorante poesia.