La biografia di Bob Marley in un film (Giudizio Universale, giugno ’12)
La biografia è un genere difficile sia in letteratura sia al cinema. Non basta avere fra le mani una vita avvincente. Innanzitutto, come in un romanzo, bisogna saper raccontare le storie e poi fare buon uso dei testimoni, sistemare al posto giusto gli snodi fondamentali, dare rilievo a fatti secondari, a dettagli che svelano il segreto di un destino. Bisogna che il protagonista riviva la sua esperienza, il suo tragitto come nella realtà, ma in modo conciso, essenziale. Il ritratto alla fine deve essere somigliante, ma anche mostrarsi chiaramente come il frutto di un’interpretazione, documentata quanto si vuole – ed è necessario che lo sia -ma inevitabilmente “ispirata”, e perciò reinventata.
Tutto questo c’è in Marley, il film di due ore e mezza che Kevin Macdonald (l’autore scozzese di Un giorno a settembre e L’ultimo re di Scozia) ha dedicato a una personalità fra le più carismatiche dei nostri tempi, cantautore, pacifista, chitarrista legato alla diffusione del reggae nel mondo intero, nato il 6 febbraio a Nine Mile, in Giamaica e morto a Miami per un cancro trascurato nel maggio dell’81 a soli trentasei anni.
«Questo film è importante perché, nonostante in passato siano state fatte molte cose su Bob, credo sia la prima volta che viene data alla gente la possibilità di sentirsi emotivamente vicina a lui come uomo, non come leggenda del reggae o come figura mitica» ha detto il primogenito David “Ziggy” Marley che gli somiglia in modo impressionante. Sembra una banalità, eppure Ziggy ha centrato il motivo per cui questo film può appassionare anche chi non avesse mai ascoltato nessuna delle (splendide) canzoni di Bob Marley o fosse completamente disinteressato alla spiritualità rasta di cui fu per tutta la vita convinto discepolo e promotore.
Il film si regge sulla forza della vicenda umana di una persona eccezionale: la nascita poverissima, da padre inglese e madre giamaicana, il disconoscimento paterno, la doppia emarginazione – perché mulatto – dalla società dei bianchi da una parte e da quella dei neri dall’altra, la passione per la musica, un carattere determinato e ribelle, la grazia di un corpo minuto e atletico, un volto di rara delicatezza. Il successo arriva coltivato, preparato, inseguito. Diventa passo dopo passo planetario in forza di canzoni strepitose, di quelle che non tramontano e che stanno strette dentro i clichè, le mode, i generi. Si carica di un convinto impegno pacifista e di alcune circostanze drammatiche da cui Bob esce indenne, coltivando forse spericolatamente la convinzione di essere invulnerabile.
Una moglie e una “fidanzata” altrettanto speciali: Rita, giamaicana nera, la prima, madre di Ziggy e di Cendella, capace di accettare che Bob non fosse solo suo, ma di tante altre donne (Marley ebbe undici figli da sette partner diverse), e dei musicisti con cui lavorava e con cui passava la maggior parte del tempo, e dei fan che deliravano per lui. E Cindy Breakspeare, Miss Mondo 1976, la seconda, giamaicana bianca, madre del figlio Damian, anche lui somigliantissimo al padre. Intervengono entrambe significativamente nel film svelando con pudore, sincerità, intelligenza aspetti sentimentali di un uomo complesso coerente nel pubblico e nel privato. «Non sto né dalla parte dei neri, né dalla parte dei bianchi, sto dalla parte di Dio», diceva.
Poi i giorni tremendi della decadenza e della morte. L’idolo che s’infrange e che fino all’ultimo, forse, non ha creduto che quella cosa orribile stesse capitando a lui. Ma probabilmente non aveva creduto fino in fondo nemmeno nel suo planetario successo, restando sempre e solo se stesso: il bambino rifiutato dal padre che doveva farsi amare almeno da tutti gli altri, vale a dire dall’intera umanità e da dio, sulla terra e in cielo