Una mia intervista a Calvino dell’85 raccolta in un nuovo libro mondadoriano a lui dedicato
Italo Calvino ricorda un verso bellissimo del Purgatorio: «Poi piovve dentro l’alta fantasia… » La fantasia, dunque, è un posto in cui piove dentro, piovono immagini dal cielo. Per Dante l’ispirazione artistica viene da Dio come nella concezione classica veniva dalle Muse.
«Le Muse come custodi della memoria, figlie della Memoria, la memoria collettiva» dice Calvino. «Le Muse rappresentano il deposito di tutto il raccontabile, di tutto il dicibile. Saper attingere a questo repertorio potenziale è la dote del poeta».
« E nella sua fantasia come piove, quanto, cosa?»
«Piovono immagini e parole insieme. Mi baso su, un processo misto. Spesso è un’immagine visiva prima che verbale a venirmi in mente. Però il momento decisivo è quello in cui mi metto a scrivere. Allora l’intenzione originale cambia, può anche trasformarsi del tutto, venire completamente dimenticata. Altre volte resiste. Per esempio: l’immagine iniziale era un uomo tagliato in due? Era un ragazzo che si arrampica su un albero e non scende più? Era un’armatura vuota capace di muoversi per la forza di volontà, sorretta da nessun corpo? Su queste immagini figurali lavoro. Faccio tutti i casi possibili, mi chiedo cosa succederà…»
Ora l’uomo tagliato in due, il ragazzo scontroso che va a vivere sugli alberi, l’armatura senza corpo se ne stanno guardinghe sul divano. Parlare con Calvino è sempre un avvenimento, è stato detto. Infatti lo è, non tanto per le snervanti resistenze dello scrittore a farsi intervistare, quanto per la sua prerogativa, davvero unica, di circondarsi di un’invisibile eppure tangibile barriera. Come intorno a un’inespugnabile fortezza, corre intorno a Calvino un minaccioso fossato. Forse dentro ci sono coccodrilli, o forse soltanto pesci rossi, chissà. Intimiditi si resta dall’altra parte a guardare. Calvino si offre di profilo. Fissa un punto indefinito di fronte a sé; le dita sono intrecciate sul petto, le gambe tese in avanti e incrociate. Di tanto in tanto si volta fugacemente, lancia uno sguardo marrone e curioso. Qualche volta, in mezzo a un’immensa serietà, ride. Brevemente, ma ride.
«In un’intervista di qualche anno fa ha dichiarato: “Credo all’esistenza del mondo”. Dunque lei non mette in dubbio ciò che si definisce “realtà”. La fantasia fa parte della realtà o vi si contrappone?»
«Non ricordo mai quello che ho detto in precedenti interviste e di solito sono tentato di affermare il contrario; se una cosa era vera nel momento in cui l’ho detta, probabilmente non è più vera in un altro momento. Penso però che quella dichiarazione fosse in polemica con chi sostiene che esiste solo il linguaggio o, comunque, che soltanto il linguaggio possiamo conoscere. Mentre io credo che esista anche il non linguistico, il non dicibile, il non scrivibile e che lo scrivere sia appunto un rincorrere sempre questo mondo non scritto e forse non scrivibile. In tal senso il mondo è fatto anche di immagini, di pensieri: è il mondo moltiplicato le proprie immagini, le proprie trasfigurazioni. Quindi sul mondo aleggia sempre una specie di nuvola, una fantasfera, che è un’atmosfera creata dalle nostre immagini del mondo. Di queste immagini abbiamo bisogno per agire, per crescere, per operare, per giudicare. Ecco, in questo senso credo alla realtà e alla fantasia insieme, se la fantasia è l’insieme delle immagini».
«La saggezza cos’è?»
«Non vale. Lei prima mi dice che mi vuole intervistare sulla fantasia e poi mi chiede della saggezza… Mi prende in contropiede… Vediamo,.. La saggezza è una capacità di decidere, di giudicare nelle cose della vita sulla base di ciò che si è acquisito nell’esperienza. È la capacità di applicare in casi singoli quello che si è imparato in altri casi singoli completamente diversi. È qualcosa di quasi impossibile o richiede una particolare dote di astrazione e di adesione al particolare contemporaneamente ».
«La fantasia non ha niente a che vedere con la saggezza?»
«Sì, è vero, la fantasia c’entra qualcosa. Perché la fantasia è velocità nell’immaginare il possibile o l’impossibile. E avere in testa una specie di macchina elettronica che fa tutte le combinazioni possibili e sceglie quelle che rispondono a un fine o che, semplicemente, sono le più interessanti, piacevoli, divertenti. È dunque anch’essa basata su astrazione e adesione ai particolari allo stesso tempo».
«Fra fantasia e ragione vede contraddizione?»
«No. La fantasia salta dei passaggi. La ragione senza fantasia comporta una grande perdita di tempo. Perché bisogna percorrere tutti i passaggi e anche tutti i casi che poi vanno scartati».
«Quando ha scritto la prima fiaba?»
«Da bambino leggevo molto il “Corriere dei Piccoli” e prima ancora di leggere lo sfogliavo e attraverso le figure mi raccontavo da me stesso delle storie. Facevo variazioni di storie possibili. Credo che quella sia stata una scuola di immaginazione e di logica delle immagini. Perché pur sempre di logica si tratta, soprattutto nella fiaba che è un tipo di narrazione molto semplice e in cui tutto ha una funzione».
«Com’era il bambino Italo?»
«Non troppo sveglio, non molto precoce, non molto dotato, non molto agile».
«La fantasia la portava all’isolamento o alla comunicazione?»
«Ah, all’isolamento totale, sì. Sì. Un isolamento che è durato fino a questo momento. Tanto è vero che è forse la prima volta che ne parlo a qualcuno».
«Allora una spiccata fantasia rende più soli i bambini? »
«Naturalmente i bambini non vogliono essere diversi dagli altri. Se ero diverso rifiutavo di ammetterlo e in fondo tutti i bambini sono fantasiosi e quindi una maggior fantasia avrebbe dovuto accomunarmi agli altri… Ma è difficile parlare della propria infanzia da adulti, soprattutto passati i sessant’anni. Penso che non si possano che raccontare fantasie sulla propria infanzia. No, credo che la mia memoria non sia affidabile…»
«Sua madre com’era?»
«Era una donna molto severa. Era anche dolce. Ma era una donna molto severa… Cosa c’entra?»
E’ qui che Calvino lancia una delle sue rare occhiate frontali. Un’altra arriva quando chiedo quale dei tre tavoli disposti in fondo alla sala sia il suo.
«Tutti e tre. Lavoro un po’ qua, un po’ là».
Il colore prevalente della casa, arredata in stile moderno, è il bianco. Vi spiccano piante verdi. Siccome il salotto, oltre che studio, è anche ingresso, la moglie dello scrittore e la figlia, una ragazza sui vent’anni, vanno avanti e indietro, rispondono al telefono, aprono la porta. Ma lui non fa caso a loro, loro non fanno caso a lui. Intorno alla fortezza il borgo è agitato e vivace, rumoroso e vitale.
«Crede in fate, streghe, elfi, gnomi?»
«Oh, che bella domanda! Fate, elfi, gnomi sono quelli che nella fisica rinascimentale si chiamavano “spiriti elementali”, proprio così, con la elle. Credo in una società di tutti gli esseri viventi, e delle piante, e degli oggetti, e delle pietre. Penso che se ho un’anima io, ce l’hanno anche i cosiddetti oggetti inanimati ».
«Lei ama giocare?»
«No, non gioco a niente».
«Vuol farlo adesso?»
«Giocare adesso? A cosa?»
«Le suggerisco delle immagini che, a giudicare dai suoi scritti, dovrebbero esserle care. Lei mi dice che fantasie le fanno venire in mente. Cominciamo con lo scheletro ».
«Lo scheletro mi pare assolutamente essenziale. È qualcosa che portiamo in noi ed è un simbolo universale. Soprattutto è dotato di una sua allegria. E di una sua funzionalità e pulizia. È un’immagine allegra. Ha uno stile, ha sempre un grande stile».
«Preferisce i magri ai grassi?»
«Ah! Alle volte penso che io interiormente sono un uomo grasso. I grassi non esistono quasi più, nel senso che non si vedono quasi più. Ma certamente ci sono ancora. Ci sono dei grassi nascosti nei magri. Amo molto la snellezza come agilità. Io sono magro, ma non sono agile. Quindi tanto varrebbe che fossi grasso ».
«Torniamo al nostro gioco. Ora tocca al labirinto ».
«È un altro simbolo universale. In qualsiasi spazio possiamo trovare un labirinto. Non dimentichiamo che il labirinto è una macchina per uscire, diciamo che è una porta un po’ più complicata, è qualcosa che bisogna attraversare».
«Ma è una porta verso cosa?»
«Una porta è sempre verso il dentro e verso il fuori. I veri labirinti ci mettono nella condizione di scegliere che cosa è il dentro e che cosa è il fuori. Ogni fuori può essere trasformato in un dentro, così come possiamo considerare fuori ogni dentro e decidere che la nostra cella è l’unica libertà possibile».
«Uovo. È una grande riuscita di design, è il container universale, è qualcosa che dovrebbe essere librata nello spazio, perché non può stare in piedi. Ed è, a differenza del labirinto e della porta, qualcosa per cui il dentro e il fuori sono decisamente opposti e non può esserci alcuno scambio possibile. Quello che è dentro è dentro e quello che è fuori è fuori. Quindi si pone sempre il problema del fuori. Se l’Universo è un uovo, è circondato da un non-universo. E si pone il problema di quale sia l’alto e quale il basso. A meno che non ci sia un portauovo o portauniverso ».
« E la gallina non ha alcun merito?»
«Ecco, ho detto design e lei ha subito pensato a un architetto milanese. Invece io pensavo anche alla gallina e a tutte le specie ovipare, ivi compresa la coppia uomo-donna. Perché anche l’uomo nel far diventare l’uovo un uovo ha una sua parte».
«Se una zingara le indovina passato e futuro resta incredulo o si affida alla profezia?»
«No, non rimango incredulo. Penso sia un caso di velocità mentale: il potersi rappresentare nello stesso tempo tutto il possibile ed escludere via via tutto l’improbabile. Però è solo in questa velocità che simili fatti possono avere a che fare con la fantasia. In genere gli esempi del cosiddetto paranormale appartengono a un repertorio molto noto e prevedibile e che non trovo più stimolante di tanti aspetti dell’infinità del possibile che ci si presentano anche nelle esperienze cosiddette normali».
«Pensa che l’esperienza dello scrittore sia in qualche modo medianica?»
«No, non credo, non so. Sì, è un’esperienza che ha pur sempre a che fare con la molteplicità. Cercare l’espressione adatta ogni volta è cimentarsi con un vocabolario immenso, con un repertorio di usi. Ma come sempre si tratta di circoscrivere le proprie scelte. In questo senso io non sono molto medianico, perché scrivo molto lentamente. Un tipo di ultrasensibilità dovrebbe portare a scrivere con il minor sforzo possibile. Io no, fatico come una bestia. È il caso di dire che mi guadagno il pane con il sudore della fronte».
«Si sente nei suoi romanzi e nei suoi scritti teorici una costante posizione di bilico fra fantasia e ragione, come se il tentativo di dare confini, di costringere nel cerchio della scrittura l’esistente fosse costantemente minacciato dallo sconfinamento fantastico. E così? »
«Sì, mi pare una bellissima metafora del lavoro dello scrittore. Mi ci riconosco anch’io. Lo stimolo a immaginare viene dalle restrizioni che ci si pone. Si stabiliscono delle regole del gioco e in quelle si attua una quantità enorme di combinazioni, si realizza la propria libertà e si può a un certo punto anche rompere le regole. Ma se regola non c’è, non è possibile infrangerla. Le norme in letteratura sono sempre state un grande stimolo per l’immaginazione. La metrica in poesia è stimolo a costruire un verso. Nessuno può sostenere che la poesia sia diventata più immaginativa da quando è invalso l’uso del verso libero. E del resto anche il verso libero ha una metrica implicita, sottintesa».
«C’è una parte della vita che ha un legame privilegiato con la fantasia: l’amore… »
«In amore ha una parte enorme quello che gli psicoanalisti chiamano il fantasma: fra gli amanti si frappone sempre un’immagine o più immagini incorporee. Mi pare sia stato Freud a dire che ogni incontro amoroso è l’incontro fra almeno quattro persone: i due partners e i loro fantasmi. Questi fantasmi possono essere poco o tanto simili al vero; se sono totalmente separati dalla realtà non credo sia una buona cosa. Diciamo che l’incontro amoroso avviene nella realtà, accompagnato da centomila variazioni possibili nella fantasia».
«Ma gli amori sono sempre “difficili” come dice un suo titolo?»
«Bah! Tutto è difficile e molto è possibile. Ma guardi un po’ che razza di frase mi fa dire… »
Ora Calvino guarda l’orologio. È passata più di un’ora dall’inizio della conversazione.
«Avevamo detto un’ora al massimo » commenta. E la sua voce è diventata improvvisamente fredda e burocratica. Impenetrabile.