QUANTO ZUCCHERO CI METTI, TANTO SARA’ DOLCE (giugno ’12 in occasione del Festival Gita al Faro)

QUANTO ZUCCHERO CI METTI, TANTO SARA’ DOLCE (giugno ’12 in occasione del Festival Gita al Faro)

 

Caro fratello,

quando mi hai detto in modo perentorio: «O vai dallo psichiatra o parti, fai un viaggio, una vacanza» ho preso il vecchio atlante di quando eravamo piccoli e ho cercato un’isola. Ventotene mi è sembrata l’isola giusta – vuoi sapere perché? Te lo dico, e forse la risposta non ti piacerà – perché c’è passata la morte di recente: non posso farci niente, sono fatta così. Sono morte due ragazze in gita scolastica per il crollo di un costone di tufo sulla spiaggia, l’hai letto anche tu sui giornali. Una tragedia, una delle tante che capitano agli esseri umani che attraversano la terra, che sono attraversati dalla vita, proprio come me e te, e che agiscono pensandosi eterni, no, non pensandosi, perché non si pensano, sapendosi, dando per scontato un’eternità che chissà perché – se tutto è a scadenza – ha potuto insinuarsi nelle loro menti limitate e caduche.

Ma, insomma, vedi, ti ho dato retta; del resto una terza possibilità, suicidarmi, nel tuo suggerimento non era contemplata. Ho scelto Ventotene, di cui non sapevo nulla, per quel fatto di cronaca che ha scioccato i suoi cittadini come noi tutti che ascoltiamo i telegiornali e con un brivido ci diciamo: stavolta a me non è toccato, io sono salvo, io forse sarò risparmiato ancora e ancora, sempre. Ne abbiamo parlato a lungo nei tuoi tentativi di aiutarmi. La mia malattia sta proprio qui: mi è venuta questa incapacità di illusione, o di rimozione, se vuoi usare uno di quei termini psicanalitici che ti piacciono tanto. E’ una malattia terribile che non permette di vivere, perché continui a essere consapevole della sofferenza del mondo ogni istante della tua vita. Mi sveglio e questo dolore sproporzionato, universale, ingiusto, umano e animale, mi sovrasta come un’onda, mi arrotola su me stessa, mi toglie il respiro. Questo ti ho spiegato quel giorno che sei accorso in mio aiuto come fai da quando eravamo piccoli. Mamma ti ha chiamato: «Vieni subito» ti avrà detto «questa volta è davvero grave, ho paura». Mi hai trovata in lacrime, che non riuscivo ad alzarmi dal letto. La tua povera sorella matta, che costringe tutti a occuparsi di lei. Ma chi ve lo fa fare?

Era stato un sogno a scatenare la crisi. Non passava, però, e non ti andava di vedermi di nuovo imbottita di farmaci. Volevi che ragionassi. «E’ così per tutti, non ti fissare» dicevi, mentre mi passava negli occhi ogni possibile angoscia e ferita e tortura delle creature, e la follia e la violenza e la crudeltà e le sciagure e le maledizioni. Tutte quante, e continuava così, l’intera giornata. E la notte quei sogni tremendi.

Fratello mio carissimo, questa lettera da Ventotene, però, non te la scrivo per dirti quello che già sai, né per raccontarti la quotidianità qui nell’isola, tanto lo so che con mamma vi sentite al telefono in continuazione e lei ti aggiorna sui miei miglioramenti «a vista d’occhio». Ti ha detto così, vero? Che miglioro a vista d’occhio. Se io prendo il sole o faccio un bagno in mare, per lei sono già «migliorata a vista d’occhio» perché non vuole altro, povera mamma: solo che io stia meglio, non bene che sarebbe troppo, le basta «un po’ meglio». Da quando papà ci ha mollati, ha vissuto soltanto per proteggerci, dalla sua assenza come da tutto il resto. Con te c’è riuscita benissimo, sei cresciuto robusto e allegro e le sei d’appoggio. Con me le è andata male. Chissà perché. Il caso, vedi. Quella forza oscura che ci governa e che mi fa impazzire. Il caso. Che qui a Cala Rossano ammazza due tredicenni e salva il resto della scolaresca. Due su quaranta.

Ti racconto una cosa, anzi tre. Per questo ti scrivo. Tre episodi della vita sull’isola, tre incontri che mi hanno aperto gli occhi e consolata, se mai fosse possibile. Mamma non ne sa nulla, ancora non ho trovato le parole per dirle quello che mi sta succedendo. Mi limito a stringerle le mani fra le mie per rassicurarla che tutto va bene, che sua figlia ce l’ha fatta ancora una volta. Ma con te è diverso. Tu starai in guardia ugualmente, non penserai: «E’ andata, ne siamo fuori» aggiungendo angoscia alle mie angosce, perché allora, per non disilludervi, io farei finta di essere guarita con uno sforzo superiore alle mie possibilità e che, ormai lo sappiamo, mi farebbe solo riammalare più rapidamente.

Allora. Ero appena arrivata a Ventotene, da un giorno o due forse. Isola di confinati, non lo sapevo, la tua ignorantissima sorella l’ha scoperto qui. Mi è piaciuto questo, un precedente storico per il mio personale confino di nevrastenica, il mio essere murata dentro me stessa come in un carcere di massima sicurezza. Ho fatto acquisti in un’accogliente libreria nella piazzetta del paese: Il manifesto di Ventotene, di Rossi e Spinelli, due che al confino ci sono stati sul serio, e C’era una volta una guerra di Steinbeck, le sue cronache di reporter che segue lo sbarco americano da Salerno a Ventotene. Buon segno no? Un modo per evadere da me stessa, per imparare qualcosa e farmi un’idea dell’eroismo.

Vado avanti. Mamma riempie il nostro tempo con escursioni e nuotate e giri per compere nella speranza che mi distragga dai miei pensieri. Io cerco ogni pretesto per eludere la sorveglianza, per potermi togliere dal viso lo stupido sorriso rassicurante che indosso al risveglio e depongo la notte con un sollievo che è l’unica vera gioia della mia ossessiva esistenza. Ieri, per esempio, nuotavo verso un isolotto di fronte alla spiaggia, impresa troppo sportiva perché mamma potesse seguirmi. Salivo la scaletta scolpita nel tufo e mi mettevo seduta abbracciata alle ginocchia osservando il faro di fronte, il mare languido, i gabbiani in vedetta, totalmente indifferenti alla mia vicinanza innocua. Sanno per istinto se hai o non hai una fionda. Apparvero grondanti sulla scaletta un giovane padre dai piccoli occhi molto azzurri – ne intercettai precisamente forma e colore insieme a un saluto gentile – e sua figlia, una bambina di sei sette anni. Si parlavano in tedesco. Stavo per andarmene, non volevo compagnia. Ma lui cominciò a dire nein, nein, e mi guardò di nuovo, disperato stavolta, come a chiedermi aiuto. «Che succede?» gli ho chiesto. «Ho perso l’anello» mi ha risposto. «Dove?» «Adesso, nell’acqua. Ci stavo giocherellando, è caduto in mare». Provai un’immediata comprensione per la sua disorientata malinconia. Non so cosa quell’anello significasse per lui, non me ne importava niente, ma il suo sbigottimento era il mio.

«Cerchiamolo» ho detto. «Il mare è calmo, si sarà arenato qui sotto». Ma non credevo che si fosse arenato, immaginavo invece che stesse fluttuando già lontano trascinato dalle correnti.

Aveva la maschera, io gli occhialini. Ci siamo tuffati mentre la bambina ci seguiva dall’alto. Forse passò un quarto d’ora, forse di più. Io guardavo il fondo di sabbia, scrutavo con metodo in mezzo agli scogli coperti di alghe ondeggianti. Così, tanto per non lasciarlo solo in quella assurda pesca subacquea, ma allo stesso tempo cercando una frase per sganciarmi, perché ogni nostro ulteriore sforzo era inutile: l’ago nel pagliaio, hai presente? Passavamo e ripassavamo nella stessa zona, attenti a ogni luccichio, ogni serpeggiante movimento di pescetti. Quando emergevamo per respirare, mi raccontava a brani la storia dell’anello. Un regalo della moglie che non c’era più, mi diceva nel suo italiano approssimativo. Non ho capito se l’aveva lasciato o era morta; comunque, pensai, lui l’amava ancora selvaggiamente. Invidiai per un momento quella donna e mi rimisi a cercare, per rispetto al lutto suo e della figlia, che lassù, sull’isolotto, si era accovacciata e aspettava tranquilla, un pochino più sconfortata a ogni nostro venire a galla senza trofeo.

«Finché c’è luce, ci provo, vado avanti. Seguirò i pesci, solo loro mi possono portare all’anello» mi comunicò. Io ne restai sgomenta. Non sapevo cosa fare, la bambina mi chiedeva in silenzio di non lasciare solo il padre in quell’impresa disperata. Ma io che c’entro, volevo dirle, e mi sentivo in trappola.

«L’ho trovato» disse lui improvvisamente tirandosi la maschera sulla testa. Le pupille erano due punti, due spilli nel celeste che dilagava. «Dove?» ho chiesto io, e non sapevo se era più grande lo stupore o il sollievo. «Mi ci ha portato un pesciolino infilandosi nella vegetazione dello scoglio, che le avevo detto? I pesci sono curiosi, sono attratti da ogni riflesso» spiegò, come mi stesse illustrando il risultato di una magnifica equazione matematica. E mi indicava il punto esatto. Ero sicura di aver cercato anch’io in quel punto, proprio lì e più di una volta. Ma, già, non era l’amore a guidarmi.

Ho lasciato il padre e la figlia sull’isolotto che si abbracciavano festosi e mi sono allontanata alla chetichella, ancora incredula. La seconda cosa che ti voglio raccontare, o vogliamo chiamarla illuminazione? Beh, fai tu; la seconda cosa che ti voglio raccontare è la gita in gommone con mamma a un’isola vicina, Santo Stefano, dove c’è un carcere borbonico che sembra un teatro; mai vista tanta bellezza architettonica applicata a un luogo di detenzione. Mentre ero nel cortile, ho alzato lo sguardo verso il cielo: bianchi gabbiani volavano liberi e incuranti, adesso come allora probabilmente, quando a sollevare il viso verso  l’irraggiungibile libertà erano i prigionieri, criminali irredimibili ma anche eroi della patria, mescolati insieme nel segno del più sprezzante appiattimento. Luigi Settembrini e Sandro Pertini sono stati reclusi lì dentro. Tanti ci hanno passato la vita intera e alcuni sono stati sepolti nel cimitero accanto, perché nessun familiare ne ha reclamato il corpo. In questo cimitero, dalle umili tombe segnate con croci di legno, ho letto un’epigrafe che mi è piaciuta: «Ogni luogo, ogni tempo e tutte le condizioni sono adatte per adoperarsi nel bene». Facile retorica, dirai tu, e poi in un posto così. Non so, forse sono ipersensibile in questi giorni: la scritta mi è sembrata destinata a me. Dentro ci ho sentito un richiamo all’ordine, o una possibilità di esistenza suggerita a una persona incapace di vivere, mettila come preferisci. Per tutto il ritorno sul gommone rimuginavo quella povera frase, mentre mamma spiava sul mio viso i segni di una ricaduta, tanto concentrata mi vedeva, e seria. Quando mi sono accorta della sua preoccupazione, le ho sorriso – mi è venuto spontaneo – e si è rilassata.

Ma è il terzo incontro il più importante, come nelle fiabe. Abbiamo preso l’abitudine di fare colazione in una pasticceria, un baretto che vende deliziosi dolci fatti in casa. C’è dentro una signora anziana, una vecchietta insomma. Lasciami usare questa parola in disuso, perché lei non è altro che questo: una vecchietta linda e decorosa, in ciabattine di velluto e grembiule bianco ricamato. Non ci crederai: in testa ha anche una candida cuffietta arricciata, ottocentesca, sembra uscita da uno dei libri che conservo dall’infanzia e che tu mi nascondevi per farmi dispetto. Ha movimenti leggermente rigidi, ma non sta mai ferma. E’ lei che prepara le torte, tre, sempre le stesse tutti i giorni. Così si può scegliere fra una torta al cioccolato, un ciambellone alla crema e una crostata di ciliegie. Stamattina le ho detto che le sue torte sono le più dolci del mondo, perché davvero non mi era mai capitato di assaggiarne di così buone.

Mi ha guardata con occhietti neri scoloriti, ma belli sai, guizzanti, furbi: «Cocca, quanto zucchero ci metti, tanto sarà dolce! Questo è il segreto».

Hai capito, fratello? Io sì. «Questo è il segreto». E ora riceverai la mia lettera. Non una mail, una vera lettera con busta, francobollo, indirizzo. Ci sono problemi di collegamento sull’isola, la connessione viene e va. Così ho pensato di scriverti una lettera che dovrai decifrare con un po’ di fatica fra i geroglifici della mia brutta grafia. Prendila come un segno d’affetto, non di follia. E’ la mia aggiunta di zucchero nella torta del bene che ti voglio.

 

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