Alex Langer raccontato da Franco Lorenzoni. Un convegno ad Amelia (dall’Unità, 22 maggio 2010)

Alex Langer raccontato da Franco Lorenzoni. Un convegno ad Amelia (dall’Unità, 22 maggio 2010)

Alexander Langer

«Continuate in ciò che è giusto» ha scritto in un biglietto agli amici prima di togliersi la vita Alexander Langer, il leader pacifista e ambientalista, coordinatore del gruppo Verde al Parlamento Europeo, che tanto si è speso per la convivenza fra i popoli e i diritti delle minoranze. Era il 1995. Sono passati quindici anni e ora gli amici vogliono fare il punto su quanto «ciò che è giusto» è realmente andato avanti in questo lungo periodo. In un convegno di due giorni (22 e 23 maggio) ad Amelia (Terni), Alexander Langer tra ieri e domani, organizzato dalla rivista «Lo straniero» e la Casa-laboratorio di Cenci, s’interrogheranno sui temi cari ad Alexander per continuarne il cammino.
Sono passati quindici anni dalla sua morte, ma sono anche, quest’anno, trent’anni che esiste la Casa-laboratorio, fondata da Franco Lorenzoni, maestro elementare e teorico di una sperimentazione educativa e artistica raccolta in due libri di rara grazia e intelligenza, L’ospite bambino (Teoria 1994, ripreso da NuovaEra nel 2002) e Con il cielo negli occhi (Meridiana 2009). E’ nel bosco di Cenci, dove Lorenzoni vive e tiene i suoi campi-scuola, che m’inoltro per parlare con lui di Langer e del convegno. Devo prendere una piccola traversa sulla destra lungo la strada che da Amelia porta a Giove e proseguire seguendo le indicazioni scritte a mano su piccole frecce di legno. Il bosco s’infittisce, poi si arriva nella radura dove un gruppo di bambini si prepara alle imprese di «piccole marmotte» del giorno. Franco è andato a prendere a scuola il suo figlio più piccolo, che ha poco più di quattro anni, e mi racconta che in macchina il bimbo gli ha fatto una domanda difficile, gli ha chiesto: «Papà, che cos’è il pensiero?» I bambini fanno continuamente domande così, mi dice, domande che mettono in crisi l’adulto e lo costringono a tenere attiva la testa. Mi porta a visitare il territorio dove le scolaresche vengono a sperimentare un rapporto diretto con la natura, con gli animali, con il cielo. Quello che a tanti bambini di città è completamente negato. Lo seguo dentro un labirinto di piante di un chilometro e su una terrazza di legno dove ha costruito un «timone astronomico» che segue i movimenti degli astri e aiuta a orientarsi facilmente nel firmamento.
Una delle sue fissazioni, di cui ha fatto un principio educativo, è «prendere sul serio le metafore». L’altezza del cielo, per esempio, va sperimentata, così la pericolosità del bosco e il perdercisi dentro, magari di notte quando fa più paura. «Non hai idea» dice «di quante resistenze di genitori ed educatori dobbiamo superare. I bambini di oggi vivono nella paura della libertà, sono sotto costante controllo di adulti terrorizzati. Nei primi anni, quando arrivavano qui, dovevano togliere l’orologio e per almeno cinque giorni non era permesso nemmeno chiamare casa. Ora, con i cellulari, le famiglie telefonano ogni tre ore e questo controllo costante è un grave ostacolo alla crescita, è la fine dell’infanzia. Poi ci si sorprende che gli adolescenti abbiano reazioni anche isteriche e devianti, appena possono evadere di prigione…»
Ma siamo qui per parlare di Alex, mi ricorda e delle due giornate di studio a lui dedicate. «Perché la sua è una lezione ancora viva che non va assolutamente lasciata cadere. Per esempio aveva idee molto precise su come una società degna di questo nome dovrebbe intervenire nei conflitti, elaborò soluzioni molto diverse da quella facile delle armi che sembra oggi l’unica via praticata».
Gli chiedo di raccontarmi quando si sono conosciuti lui e Langer. «Eravamo insieme a Lotta Continua e poi nell’88 ci siamo incontrati a Città di Castello dove istituì la Fiera delle utopie concrete. Quella prima edizione fu indimenticabile, lungimirante sui problemi che avrebbero investito il mondo dell’Est».
Proviamo a riassumere la figura di Langer in pochi punti chiave? «Non era ideologico. Aveva vissuto sulla sua pelle da piccolo nel Sud Tirolo il peso dell’emarginazione e quando – sempre – si batteva dalla parte degli oppressi, delle minoranze etniche e linguistiche, sapeva bene di che si trattava. L’immagine che meglio lo rappresenta è quella del ponte. Aveva la vocazione a costruire ponti fra realtà conflittuali. Era un grande raccontatore di storie: sapeva raccontare le persone e le relazioni fra le persone, comprendendone le ragioni, spesso tragicamente irriducibili le une alle altre. Come disse un comune amico, Peter Kammerer, era un costruttore di costellazioni, sapeva cioè mettere in relazione persone anche molto lontane».
Ho qualche difficoltà a formulare un’ultima domanda, poi mi decido: perché si è ucciso?
«Quando uno tenta di assottigliare all’estremo il confine fra se stesso e l’altro, come Alex ha fatto senza remore, la sua vulnerabilità diventa assoluta. C’erano ragioni personali e ragioni sociali, ma in sostanza credo che a un certo punto non sia più riuscito a proteggere la sua sensibilità».

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