Françoise Sagan (Il Foglio, 4 luglio 2020)
Non tutti gli scrittori-mito, gli scrittori-star, sono grandi scrittori. Anzi spesso è il contrario, quasi che si trattasse di due tipi diversi di grandezza: una legata esclusivamente alla scrittura, l’altra soprattutto alla personalità. Se si dice Françoise Sagan, per esempio, viene subito in mente il suo formidabile primo titolo, Bonjour tristesse, e la scia di scandalo che seguì alla pubblicazione. Cosa esattamente raccontasse il libro sfugge un po’ a tutti, anche ai tantissimi che lo hanno letto e riletto nel corso del tempo. Resta il ricordo di un’estate al mare, del rapporto esclusivo fra un padre vedovo e una figlia, delle prime avventure erotiche di questa figlia e dei suoi loschi tentativi di allontanare il padre adorato da una nuova compagna, ma quella storia non lascia, credo, nessun coinvolgimento emotivo al di là del bagliore del sole su una barca, nessuna forza della pagina che si ripercuota nella coscienza del lettore per il resto dei suoi giorni come succede con i grandi romanzi.
Eppure eppure… Era il 1954. E dobbiamo tener presente il perbenismo piccolo borghese che circolava nel mondo degli anni Cinquanta, tutte quelle copertine di rotocalchi che rappresentavano donne carine con grembiulini a ricami San Gallo e il mestolo in mano davanti ai fornelli, le pubblicità con figure femminili felici, fra poppanti e lavatrici nuove di zecca, al grido «Ava come lava» e «uso questa crema per piacere a Lui»…, donne che erano arrivate illibate al matrimonio o che si apprestavano, rigorosamente vergini, a scegliere il vestito bianco per le nozze.
Ed esce questo romanzetto, dove la diciassettenne Cécile rompe gli schemi della prevista ragazza da marito. E’ orfana di madre, ma della madre le è sempre importato poco. Il suo idolo è il padre, vanesio e dongiovanni, al quale una certa Anne, durante l’estate al mare, vuole a tutti i costi far mettere la testa a posto, sperando di convolare con lui e non risparmiando consigli alla giovane ribelle. La quale giovane ribelle pensa bene di spassarsela cominciando a fare l’amore in barca con l’atletico Cyril. Tutto va per il meglio allora? Ma no. Cécile è gelosa di suo padre. Preferiva di gran lunga per lui le avventurette con fidanzate leggere e di passaggio, ed ecco allora che ci infila del suo per far mettere la testa a posto al papà, ma in senso inverso. Anne scopre il partner mentre amoreggia con una ragazza invitata proprio dall’astuta Cécile e la situazione precipita. Con tragedia finale: uno di quei provvidenziali incidenti automobilistici che nei libri – come nella vita – della Sagan vengono a risolvere trame e modificare destini. Non sempre nel senso migliore, va detto. Nessun lieto fine, insomma, e questo è un merito dell’autrice: «In macchina, al ritorno, mio padre mi prese la mano e la strinse nella sua. Allora pensai: “Ormai non hai che me, io non ho che te, siamo soli e infelici”, e per la prima volta piansi».
Nel 1954 Sagan, nata a Cajarc da buona famiglia il 21 giugno del 1935, ha poco più dell’età di Cécile. Non è ancora ventenne, ma non viene dal nulla: si è già fatta notare con una serie di reportage per la rivista «Elle» dedicati all’Italia (l’amore per l’Italia le nasce dai Vitelloni di Fellini, film adorato). E ogni suo articolo lo intitola con la parola bonjour, tipo Bonjour Venezia, Bonjour Capri, Bonjour. Napoli…In seguito ci saranno altri “buongiorno”: New York, Cuba, Gerusalemme, e saranno raccolti in volume dopo la sua morte. Ma insomma, quando si tratta di trovare un titolo per il romanzo d’esordio, ecco l’idea: sarà l’indovinatissimo Bonjour tristesse, visto che è proprio una forma molto repressa di tristezza la nota dominante del libro, primo di una trentina di opere cui si affiancano sceneggiature e pezzi di teatro.
Opere rispettose, quasi tutte, di un semplice schema sentimentale in cui si muovono coppie che s’intrecciano in modo variegato, formando in genere triangoli amorosi. La novità di Bonjour tristesse è che la coppia protagonista sia vagamente incestuosa. E’ forse la prima volta che una donna, così giovane per giunta, osa tanto. Ed è la prima volta che viene dichiarato apertamente il segreto meccanismo del romanticismo femminile che si ciba di “racconto”, di parole, più che della materialità sessuale: «Oltre al piacere fisico e reale che mi procurava l’amore, provavo una specie di piacere intellettuale nel pensarci. Le parole “fare l’amore” hanno un loro fascino speciale, tutto verbale, indipendente dal significato. Il termine “fare”, materiale e positivo, unito all’astrazione poetica della parola “amore”, mi entusiasmava».
Successo di scandalo dunque, ma non solo, se il premio Nobel François Mauriac si scomodò a scrivere sul «Figaro»: «Il talento di questa ragazza terribile non si discute!» Va anche detto che erano tempi di Nouveau Roman e di impegno sartriano, a una certa destra letteraria non parve vero di riconoscere in Sagan il ritorno al romanzo commestibile, buono per tutti i palati, e tanto meglio se condito di perversioni appena suggerite e di una critica in fondo indolore all’impostazione familiare tradizionale.
In definitiva si trattava nient’altro che di storie d’amore. Ma c’è modo e modo di scrivere d’amore e Sagan ne conosce i risvolti più amari accanto agli eccitanti trionfi. Conosce le ipocrisie degli uomini, ne descrive con battute argute la superficialità sentimentale come i travolgenti ardori. E conosce ancora meglio le insidiose disposizioni femminili, l’invincibile fragilità mascherata da progetto, il perenne bisogno di protezione, le facili illusioni, i sogni d’amore troppo in contrasto con la realtà. Crea così una galleria di donne autentiche, arriviste per insicurezza, infelicemente innamorate per masochismo, attratte da giovanotti focosi quando sono già mature, o da mariti (delle altre) adulteri se sono invece ragazze ingenue piene di sogni che si infrangeranno (Un certo sorriso). Non sono mai buoni sentimenti, quelli che si trovano nelle sue pagine, anzi, Sagan è maestra nel tratteggiare un’umanità di entrambi i sessi spesso meschina, piuttosto qualunque, mossa da sospetti banali, giganteschi egoismi, irrefrenabili invidie, problemi sciocchi.
Tradimenti, attese deluse, attrazioni fatali sono le molle di racconti chiusi dentro una sonnolenta ripetitività e un corto respiro narrativo, dove però circola sempre un’attraente, autentica, irriducibile malinconia, un desiderio suicida di perdersi il meglio della vita proprio mentre sembrava lo si stesse cercando. Lo dimostra una volta di più il romanzo finale (e incompleto) ritrovato fra le sue carte e solo ora pubblicato, I quattro angoli del cuore, edito da Solferino (e in Francia, da Plon, l’anno scorso). Denis Westhoff, l’unico figlio, fotografo, di Françoise Sagan – scomparsa nel settembre del 2004 – è stato a lungo incerto sulla divulgazione perché si trattava di una prima stesura a tratti incoerente che s’interrompe improvvisamente senza indicazioni su come concluderlo. Soltanto ora, dopo un suo lieve rimaneggiamento, ha deciso di darlo alle stampe trovandolo decisamente «saganesco» come scrive nell’introduzione, nel senso delle caratteristiche tipiche della scrittrice: impudenza, umorismo e «audacia al limite della sfrontatezza». Basta pensare a quanto “fa Sagan” questo passaggio: «Una lampada che si spegne, un maglione che una donna sfila dalla testa ardente di un uomo, una camicia che lui stesso si strappa di dosso, i pantaloni, le scarpe spinte via l’una con l’altra, parole d’amore, lacrime condivise, una bocca incollata a un’altra bocca. E poi il rumore di due corpi che si gettano l’uno sull’altro, di due foglie, due pagine… E il vento, il vento che si leva con il giorno».
La scena si svolge alla Cressonade, ricca dimora di campagna dei Cresson, governata dalla figura del patriarca Henri, un uomo grossolano, incapace di decifrare i sentimenti degli altri e convinto di essere ricambiato dall’elegante consuocera Fanny, venuta a trovare la gelida figlia Marie-Laure, sposata a Ludovic Cresson, figlio di Henri, delicato e stordito ragazzo sopravvissuto miracolosamente a uno di quei terribili incidenti che dicevamo prima. Marie Laure di Ludovic e della sua lunga convalescenza non ne può più, mentre a lui si affeziona oltre il limite consentito la generosa appassionata Fanny, disposta a cedere – in preda a impulsi erotici-materni – all’impeto irresistibile dell’innamoratissimo genero. Ecco dunque i quattro angoli del cuore di questa storia in forma di quartetto (qui è Schumann e non il Brahms di un altro celebre romanzo saganiano a fare da sottofondo) che purtroppo finisce su una grande, attesissima festa in cui diversi nodi verranno al pettine, ma che l’autrice non è arrivata a raccontarci. E il figlio, giustamente, non si è sentito di completare. Ma non importa: malgrado una certa lentezza della prima parte, cui avrebbe giovato la sforbiciata che sicuramente Sagan avrebbe messo in atto in fase di revisione, il romanzo richiama alcuni elementi inconfondibili della sua narrativa e quella grazia speciale legata a una stagione molto romantica e molto esistenzialista, in cui la voce di Juliette Greco (grande amica di Françoise fra l’altro) raccoglieva il testimone della Piaf.
Per quanto la letteratura francese subisse i colpi della rivoluzione antinaturalista e sulla scena si muovessero grandi calibri dalla voce decisamente nuova come Marguerite Duras, Samuel Beckett, Natalie Sarraute, lo spirito leggero e sempre intenso di una scrittrice come Colette (scomparsa proprio nel 1954) metteva ancora tutti d’accordo e poteva serenamente passare lo scettro alla “ragazza terribile” che le aveva portato una copia di Bonjour tristesse nella parigina rue de Beaujolais al numero 9 (dentro Palais Royal), con la dedica: « A madame Colette, sperando che questo libro le faccia provare un centesimo del piacere che mi hanno dato i suoi».
Non era bella come era stata Colette Françoise Sagan. Un corpicino da ragazzo, un viso spigoloso con occhi tristi e naso troppo grande, ma era a suo modo fatale. Grandi amori, grandi sbornie, vita spericolata, passione per il gioco e per la velocità, droga quanto basta (diceva). Ma con la scusa di un incidente spaventoso a bordo della sua adorata Aston Martin cominciò alla fine degli anni Cinquanta a far uso di morfina per lenire i dolori e anche se dichiarava di essersene liberata, non era vero. Ma non sarebbe bastato tutto questo atteggiarsi a gioventù bruciata a trasformarla in icona. A incoronarla regina di una fama tanto più risplendente quanto più chiacchierata, fu il cinema. Ebbe grande fortuna col cinema. Diversi suoi romanzi divennero film. E film molto belli, oserei dire migliori a volte dei suoi romanzi. E con attori formidabili.
A cominciare proprio da Bonjour tristesse che ebbe la regia di Otto Preminger, capace di aggiungere quel tanto di profondità che al libro mancava, e un cast stellare: David Niven e Deborah Kerr, Mylène Demongeot, la stessa Greco e un’indimenticabile Jean Seberg di vent’anni, ma col l’aria da quindicenne, nei panni della protagonista. Prendiamo poi Le piace Brahms? che è senz’altro l’opera letteraria più riuscita della Sagan, e che l’interpretazione di Ingrid Bergman, Anthony Perkins e Yves Montand rende memorabile, mentre il regista Anatole Litvak con l’invenzione (per dirne una) di quel manifesto di Brahms dietro le spalle di Paule, quando il ragazzo innamorato (un Perkins molto fitzgeraldiano) ha l’idea estemporanea di invitarla al concerto, arricchisce la vicenda di piccoli decisivi dettagli. E La chamade (Batticuore) di Alain Cavalier (tratto dall’omonimo romanzo del 1965) illuminato da due attori come Catherine Deneuve e Michel Piccoli, perfetti nei loro ruoli di amanti borghesi…
Il cinema portò nella vita di Sagan tanti soldi che lei era pronta a sperperare nell’accelerazione della sua esistenza e al Casino, dove però vinceva anche tantissimo. Puntando una forte somma su un solo numero, vinse una volta una cifra astronomica che le permise di comprare una specie di reggia vicina a Honfleur, casa che amò moltissimo. Era però destinata a perdere tutto, maniero, successo, salute, ricchezza. Per una mancata dichiarazione dei redditi lo Stato Francese la perseguitò fino a ridurla in miseria. Nemmeno il suo amico Mitterand poté fare nulla per aiutarla. L’alcol, la cocaina, la vita disordinata l’avevano ridotta pelle e ossa, costretta ad appoggiarsi alle stampelle per muoversi.
Finì i suoi giorni in una clinica per disabili in Normandia, abbandonata da tutti, fan e amici, perché ormai non riconosceva più nessuno dimentica del passato e di se stessa. Non era vecchia, aveva sessantanove anni, ma – dicono – sembrava una centenaria. Tornava così a essere Françoise Quoirez, quel nome di famiglia che nessuno conosceva. Lei aveva scelto per sé un altro nome, Sagan, da un principe parigino frequentato da Proust. Un nome affettuoso e musicale, regale come riuscì a essere lei. Principessa sempre pronta a perdere lo scettro.
guido villa
Un bellissimo ed interessante saggio, sulla Scrittrice, su i suoi libri ed sul rapporto molto importante col cinema.