Una madre assassina per Ermanno Cavazzoni (Il Foglio, 16 ott. 2020)
Quante cose passano fra una madre e un figlio, e non necessariamente esaltanti. Soprattutto quando, uscito il “piccolo” dall’infanzia e poi dall’adolescenza e poi dalla giovinezza, continua a vivere accanto a mammà. Che rapporto avrà avuto Ermanno Cavazzoni con la sua di mamma? Se qualcosa di personale c’è sempre nei libri che scriviamo, rose e fiori non deve essere stato. Però siamo avvertiti già nella prima pagina del suo nuovo romanzo, La madre assassina (Nave di Teseo, 168 pagine, 18 euro), qui si parla di «un fatto successo davvero, un omicidio efferato, un caso giudiziario accaduto alla periferia di Milano nel 2010». Tanto per distoglierci dalla pista giusta, penso io. Ecco perché aggiunge subito che la stampa di quel caso non se n’è occupata, per non generare «emulazione fra i giovani». E figurati se la stampa si fa certi problemi… Ma insomma, intanto il protagonista effettivamente non si chiama Ermanno. Si chiama Pacini Andrea, detto André. Anche «micino», così almeno lo chiama la famosa madre, quella che nel titolo viene insultata come «assassina».
Ma è assassina o no? Con Cavazzoni non si è mai sicuri di niente, non sai mai bene quando sogni o sei desto, quando ti trovi a camminare serenamente nella realtà, di un bel paesaggio emiliano magari, e quando invece sei travolto dalle visioni di qualche mentecatto. In questo libro, poi, si è messo in testa di scrivere un giallo. E il risultato è un giallo di Cavazzoni (per fortuna, aggiungo) in cui le regole del genere sono immediatamente e programmaticamente sconvolte. Nessun mistero, per dire, nessun ribaltamento inaspettato. Anzi. Un bell’inanellarsi di follie, quella del figlio, che un giorno si sveglia e decide di essere morto (ucciso dalla madre appunto) e di essere stato sostituito con una specie di robot. E la follia della madre (vista a un certo punto come un «calamaro gigante») che vive in una dimensione da Mulino Bianco e non si accorge di niente. Il suo eterno bambino (ormai grande e grosso e fidanzato) dà i numeri? Lei continua imperterrita a vederlo come un pupetto viziato, il suo tesoruccio che va dicendo di non voler mangiare perché lei gli avrebbe cucinato pezzi del suo stesso corpo. Orecchie da mercante. Sono così le madri: attente al figlio ideale e cieche alla verità dei fatti. Altrimenti dovrebbero ammettere in chissà quanti casi di aver generato un minchione, disadattato, attaccato alle loro gonnelle, incapace di vivere nel mondo senza sentirsi dare di continuo del piccolino mio e del micino. Un figlio di cui alla madre importa soltanto se gli è piaciuto il ragù («Ti piace, micino?» è la domanda universale). E il povero André che non aveva mai rivoltato il piatto, riesce a farlo solo a un prezzo altissimo. Quello di sentirsi al centro di un colossale complotto condominiale di cui sarebbero ideatori sua madre e l’amante, perché sì, la madre assassina ha pure l’amante: tal ragionier Olivi, l’amministratore del condominio, tanto per accrescere la malefica banalità delle cose che accadono in quel palazzo. Del resto, siamo o non siamo in un giallo contemporaneo? Uno di quei gialletti in cui si muove una sordida umanità pronta a tutto, meschinella e qualunque, senza nessuna filosofia grandiosa della vita, la morte, la sopraffazione, l’omicidio, senza un vero senso del Male?
Che possibilità ha il robotico André se non indagare (bella l’idea che il “commissario”, qui, finisca col coincidere con l’assassino, perché si vedrà leggendo di quale misfatto il ragazzo si macchia…), indagare alla ricerca di se stesso, non psicologicamente per carità, l’analisi psicologica non è mai rientrata negli orizzonti narrativi di Cavazzoni. E’ una ricerca materiale del proprio corpo scomparso, ucciso e nascosto chissà dove. Che possibilità ha Pacini André se non quella di prendere in mano la situazione e accanirsi contro colei che il vero misfatto l’ha compiuto mettendolo al mondo? Non è ogni nascita una condanna a morte?
Le pagine dedicate alla chiamiamola vendetta – in realtà André ha la sensazione di riportare la giustizia al suo posto – sono diligentemente splatter, da fare venire più di un brivido lungo la schiena. Ma quando il giovane protagonista se ne torna a dormire «un sonno placido e acquoso» nel suo letto di singolo, condannato dal suo edipo a esserlo per sempre, nella Milano di tante altre ambientazioni dichiaratamente noir, viene come un rimpianto di argini, di spaesamenti lungo il Po, di pittori e vagabondi fuori di testa che, se fanno del male, lo fanno soprattutto a se stessi. Quel mondo fiabesco di stralunati sensibili e bizzarri, che è il vecchio mondo di Cavazzoni e di cui ora, in questo libro che non fa sorridere con la consueta dolcezza, anzi è denso di un humour agghiacciante, popolato di uomini insipidi e di donne sciocche, ci sta forse segnalando la scomparsa.