La storia di Edith (Il Foglio, 30 gennaio 2021)
Nella viuzza del villaggio ungherese dove è vissuta fino al 1944 «c’era chi la salutava e chi no». Quel villaggio, nel suo ultimo libro che s’intitola Il pane perduto (La nave di Teseo), lei lo riassume nel nome della piccola via, Sei Case in italiano, lingua scelta per scrivere fra le tante che conosce, nella frazione di Tiszabercel dove è nata nel 1931. Lei è Edith Bruck, scrittrice che della verità ha fatto una bandiera, la verità terribile della Shoah soprattutto. E quindi ci tiene a quel “1931” perché, non si sa come mai, in rete hanno scritto 1932, e tutti le tolgono sempre un anno. Invece fra poco, in maggio, ne compirà novanta, tondi tondi. Lo dice ridendo, con quella miracolosa allegria che le conosco da quando la incrociai a Roma al teatro femminista La Maddalena intorno al 1975, teatro che aveva fondato con le scrittrici Dacia Maraini, Adele Cambria, Maricla Boggio, la regista Sofia Scandurra, la produttrice cinematografica Lù Leone e altre.
Edith da bambina era detta in famiglia affettuosamente Dikte, ma anche Grattina perché ultima di sei figli, come era ultimo quel che restava della pasta (la grattina appunto) che la madre grattava sul fondo della madia per non perderne nemmeno una briciola. E se nel villaggio c’era chi non la salutava, pur conoscendosi benissimo tutti, il motivo stava nel fatto che era una bambina povera e scalza, soprattutto era ebrea. Dentro la frase semplice e iniziale «c’era chi la salutava e chi no» Edith Bruck ha voluto mettere la spiegazione di quel che si accingeva a raccontare nel Pane perduto, che aveva già raccontato in altri libri, ma stavolta andando con ordine, cronologicamente, perché arrivata alla soglia dei novant’anni le è presa «una nostalgia dolorosa di me scalza, in corsa nella tiepida polvere della primavera sulla viuzza di Sei Case dove ero IO, senza passato, solo futuro, una vita fa».
E’ dunque un’autobiografia che va da Sei Case a via del Babuino dove abita da più di cinquant’anni, la casa che ha diviso col marito Nelo Risi, scomparso nel 2015, l’amore di una vita, cui ha dedicato gli ultimi libri prima di questo, La rondine sul termosifone e Ti lascio dormire. Edith è fedele ai sentimenti, fedele a se stessa e ai ricordi. Anche se è quasi al limite della fatica, sente sempre il dovere di testimoniare. Continua a partecipare a incontri, soprattutto nelle scuole, coi giovani (nemmeno il covid la ferma, ci sono i collegamenti video adesso). «Soprattutto oggi» dice «è necessario tornare a testimoniare, a raccontare quel che è accaduto in quei campi, oggi che spira il vento forte del negazionismo».
C’è sempre un momento, leggendo i suoi libri, in cui si scoppia a piangere, anche se lei non fa nulla per gonfiare il pathos. Edith si limita a dire le cose come stanno, come stavano. Il semplice rintocco dell’uomo col tamburino che portava le notizie a Sei Case e che un giorno avvertì: «gli ebrei dopo le sei non possono uscire di casa, né lasciare il villaggio, né viaggiare». E quelli che già non ti salutavano, si voltano dall’altra parte, quando non ti è più permesso di andare a scuola, quando quasi muori di fame. Oppure indicano la tua porta quando arrivano i gendarmi con le svastiche a portarti via. E alla mamma che aveva appena impastato il pane, quasi importa solo di quello: il pane perduto.
Madre che non rivedrà più dal momento in cui i tedeschi separano le famiglie, i vecchi e i giovani, i maschi e le femmine. Dal momento in cui un numero stampato sul polso è tutto quello che resta dell’identità. 11152 è il suo nel luogo «dove s’imparava tutto sull’uomo e sul mondo».
«Una lezione che ti basta per sempre» dice adesso. «Io non credo, come Primo Levi, che nella lotta fra il Bene e il Male, se vince l’uno o l’altro dipende dalle circostanze. Penso che in ognuno di noi c’è il bene e il male in dosi diverse e quel che succede all’esterno tira fuori ciò che siamo». Queste dosi, però, da quel che racconta la Storia, da quel che vediamo accadere nel mondo ancora adesso, sembrano assai sproporzionate: alla parte maligna delle creature ne sono toccate di più? La risata di Edith questa volta è amara: «Non vorrei pensarla così, ma è la verità dei fatti: il male vince sempre. Detto questo, si vive perché si aspetta una luce in fondo al tunnel e se salvi un solo uomo, come si dice, salvi il mondo. Io stessa mi sono salvata più di una volta, proprio quando sembrava fosse arrivata la fine, come racconto nel mio libro. Nelle piccole cose spunta a volte una speranza impensabile». E lei è al tempo stesso quella lontana tredicenne terrorizzata che si aggrappava al corpo della sorella più grande ad Auschwitz, baracca 11, e la scrittrice di oggi che nel giorno in cui riceve una Laurea Honoris Causa a Macerata si sente «sdoppiata, scissa…protagonista di una specie di favola, a fianco di un rettore con l’ermellino, e io con la toga nera e un bavaglino bianco da bambina privilegiata».
La copertina del Pane perduto presenta un’immagine struggente: Edith Bruck di profilo che, appoggiandosi con la mano contro una parete diroccata, piange disperata: è un fotogramma del documentario ungherese del 1982 A làtogatàs (La visita), di Lázló Révèsz, che coglie un momento di commozione della scrittrice mentre ritrova la vecchia casa dell’infanzia, abbandonata e in rovina. Non era la prima volta che tornava nei luoghi delle sue radici. Ce n’era stata un’altra, ancora più scioccante di “visita”. Liberate e curate dagli americani alla fine della guerra («imbiancate come fantasmi di DDT in ogni piega del nostro corpo, fatto di pelle e ossa, ci diedero un vestito rosa di cotone a fiorellini e via, tutte su un camion, all’ospedale militare di Bergen Belsen») lei e l’inseparabile sorella Judit fanno un avventuroso viaggio di ritorno a casa. Sanno della scomparsa nei lager della madre e di un fratello, ancora non sanno che è morto anche il padre, proprio alla fine, poco prima della Liberazione. Ma proprio in patria le aspetta la delusione più tremenda: nessuno, nemmeno i familiari le accoglie con gioia, ma con sospetto e paura. Si era aperto un abisso fra chi aveva fatto l’esperienza dei campi e tutti gli altri. «Il nostro avanzo di vita non era che un peso» scrive l’autrice «mentre ci aspettavamo un mondo che ci attendesse, che si inginocchiasse». Loro che volevano solo essere accolte, abbracciate. E invece preoccupazione fra i familiari superstiti per quelle bocche in più da sfamare. Preoccupazione fra i paesani divisi fra antiche colpe e giustificazioni: «Io non vi ho fatto male, io non ho preso niente…» Eppure la vecchia casa «la trovammo svuotata».
E allora di nuovo in cammino verso una nuova delusione, verso il mito di una terra promessa, Israele, che si rivela dura e accerchiata. Edith si rifiuta di fare il servizio militare, di imparare a uccidere. Detesta le uniformi. Ha solo una scappatoia: un matrimonio di facciata perché alle donne sposate è consentito sottrarsi al servizio militare. E trova un marinaio, Tomi Bruck, che si presta. Di lui le resterà solo un senso di gratitudine e il cognome (il proprio, Steinschreiber, è troppo difficile per una che diventerà scrittrice e poi la sua famiglia era stata sterminata, ciò che ne rimaneva si era rivelato ostile o disperso. Non appartiene più a niente e a nessuno, lei).
E’ una bella ragazza, dai lunghi capelli biondi alla Veronika Lake, occhi chiari dal taglio chirghiso come quelli di Claudia Chauchat nella Montagna incantata, zigomi accentuati e un corpo da ballerina. E sa cantare e ballare, e suona un po’ il pianoforte. E quando si mette a danzare sprigiona una forza e un’allegria in seducente contrasto con il fondo di malinconia che cogli sempre nel suo sguardo. Me la ricordo, in via del Babuino, ai tempi della Maddalena, sarà stato il 1977, al massimo il 1980, che tentò di insegnarmi la danza delle spade scatenandosi nel suo salotto pieno di libri. E rideva, rideva, perché io risultavo totalmente negata.
Ma insomma Edith, che non ha nemmeno trent’anni, lascia anche Israele, il marito proforma, un altro pezzo di famiglia (la sorella Judit che in Israele si è sposata e ha fatto dei bambini) e si aggrega a un gruppetto di ballo in partenza per Atene. «La paga era buona» racconta, e aveva studiato danza da piccola quando sognava di fare la cantante e la ballerina, anzi l’acrobata, quando «era piena di progetti disapprovati dalla mamma». Così diventa «la ballerina più triste che il pubblico di Atene avesse visto su un palcoscenico, con tre musicisti ebrei, grigi, che suonavano un valzer di Strauss facendo piangere le corde dei loro violini». Ma forse al pubblico non dispiaceva un po’ di malinconia dentro la vitalità di Strauss. E dopo Atene Istanbul, e dopo Istanbul Zurigo e, infine, Napoli, l’Italia che diventerà la sua patria, e l’italiano la sua lingua numero uno. Intanto continua a esibirsi, canta per il piacere di un pubblico, in cui una sera ci sono anche Ugo Tognazzi e Walter Chiari, Because of you e Rainbow. E infine arriva a Roma, in una stanza ammobiliata nei pressi di piazza di Spagna dove gira pagina. Basta fare la sciantosa. Grazie a un incontro fortuito da Otello, il ristorante del centro frequentato da artisti, intellettuali e gente del quartiere, conosce la proprietaria dell’Istituto di Bellezza più esclusivo della città ed eccola nominata direttrice alle dipendenze di quella donna che si rivela… una strega. («Le donne, quando gestiscono un potere, risultano purtroppo anche peggiori degli uomini» osserva. «Era così nei campi, è così dappertutto. Sarà rivalità, sarà insicurezza, sarà che non sono abituate a gestirlo il potere…» Come quando Miriam Mafai la licenziò su due piedi da Noi Donne, mentre Edith ci campava con quel piccolo stipendio. «Avevo una rubrica e volevo raccontare lo scandalo del Vaticano che aveva inviato in Biafra a dei bambini vegetariani carne in scatola. Ma non si potevano compromettere i buoni rapporti del giornale col Vaticano…» Lei la realpolitik proprio non la capisce). Comunque quel lavoro all’Istituto di Bellezza lo fa controvoglia, fra attrici capricciose e pseudo contesse arroganti o vere principesse, non vede l’ora ogni giorno di tornare a casa e mettersi a scrivere. Scrive della sua vita drammatica, unico modo per metabolizzarla, per farci pace.
E nascono Chi ti ama così nel ’59 e, nel ’62, i laceranti racconti di Andremo in città (diventerà qualche anno dopo un film di Nelo Risi con Geraldine Chaplin, la sceneggiatura di Cesare Zavattini, la fotografia di Tonino Delli Colli, le musiche di Ivan Vandor, compositore ebreo ungherese, che trovò la salvezza in Italia al seguito della famiglia cambiando il nome originale Weisz per scampare alle leggi razziali fasciste). Le dico che era un mio caro amico Ivan e che, ancora ragazzo, alla fine della guerra, capì di essere ebreo (segreto di famiglia sconosciuto anche a lui) entrando in una sinagoga e decidendo di convertirsi, perché «si era sentito a casa». Ma naturalmente non ci fu bisogno di convertirsi… E le dico che è morto da poco, il 15 novembre, qui a Giove, in Umbria, dove si era trasferito e dove vivo anch’io. Non lo sapeva, le dispiace, e si mette a intonare nel telefono con la sua voce forte una musica antica dolcissima, il magnifico valzer che Ivan aveva composto per il film…
«Ci lavoravamo insieme, al pianoforte, in una casa dei Parioli…» ricorda. E ricorda l’amore che già la legava a Nelo Risi. «Amore a prima vista, nel ‘59» evoca «per un uomo che gli amici mi sconsigliavano vivamente!» Indipendente in modo radicale, allergico ai legami. Sono stati insieme e non sono stati insieme tutta la vita. Un altro dei suoi dolori irrimediabili quell’uomo sempre in fuga che l’aveva sposata dopo otto anni di convivenza solo perché le scadeva il permesso di soggiorno, senza cambiare abitudini. «In regalo per il matrimonio mi fece un libro di Brecht. A un certo punto s’invaghì di un’altra senza abbandonarmi. Mangiavamo insieme a pranzo tutti i giorni. Ma poi prendeva le sue cose e andava da quell’altra». L’invaghimento durò decenni. Solo a ottantadue anni suonati decise di restarle definitivamente accanto. E i suoi ultimi undici anni di vita, in cui era malato di Alzheimer e vedeva rondini sui termosifoni «sono gli unici in cui mi sono sentita davvero necessaria per lui. Ma non rimpiango niente». Non sarebbe arrivato al traguardo novantacinquenne, così malato, senza le cure amorose della moglie fino all’ultimo istante. Le chiedo se per caso non avesse avuto bisogno di un carnefice anche fuori dal lager, ma risponde che Nelo non era un carnefice. «Lui era fatto così, e l’aveva messo in chiaro subito. E’ stata una mia scelta, adeguarmi». La scelta, comunque, di un rapporto poetico dall’inizio alla fine. Perché tutti e due erano soprattutto e intimamente poeti.
Per questo mi raccomanda di citare la sua prossima raccolta di versi, la settima. Tempi s’intitola. Uscirà dalla Nave di Teseo in primavera. Sì, certo che la cito, le dico. A un patto però, che quando tornerò a Roma a trovarla, finita la pandemia, proverà di nuovo a insegnarmi la danza delle spade. Affare fatto, ride. E’ una promessa. Di resistere, ancora e ancora.
Stefania Spizzichino
La amo tanto, Edith. Per quel dolore, terribile, graffiante, che ho trovato nella sua poesia, sempre espresso pero’ con un gran rigore , con una gran misura, con pudore. Ho spesso desiderato di abbracciarla, quando leggevo le sue cose.
Sandra Petrignani
Ciao Stefi, ti vedo solo ora! Grazie