Leggere Grazia Deledda (Il Foglio 2/10/21)
C’era Grazia e c’era Grazietta. Grazia «che non ha capricci, che sorride sempre, che non ha passioni, né offende mai nessuno», educata e casalinga. Grazietta è invece determinata a scrivere, a diventare famosa, «piccola caparbia e selvaggia, fa tutto a modo suo». Così si descrive Deledda in una lettera al suo primo estimatore, il linguista e studioso del folclore Angelo De Gubernatis, che giovanissima l’aveva coinvolta in una serie di ricerche sulle tradizioni popolari della Barbagia dove era nata, a Nuoro, il 27 settembre (non il 28 come fu denunciata all’anagrafe) del 1871. «Grazietta è il mio vero nome» gli dice con fierezza. Ed è la stessa fierezza che nel 1905, a trentaquattro anni, le detta questa nota autobiografica: «Molti hanno esagerato la mia semplicità e la mia modestia. Io non sono affatto modesta; ritengo anzi la modestia il riflesso di uno spirito che si ritiene inferiore perché realmente sente di esserlo. Io sono invece orgogliosa; non perché ho scritto dei romanzi che ottennero fortuna ma perché mi sento cosciente, forte, superiore a tutte le piccolezze e i pregiudizi della società. Se fossi nata uomo sarei stata un solitario; sarei vissuto in un eremo. Donna, devo adattarmi a piegarmi a vivere fra coloro che amandomi e proteggendomi completano la mia esistenza». Fra “i romanzi che ottennero fortuna” c’era una delle sue opere più belle, Cenere, apparsa nel 1904.
E proprio di Cenere abbiamo potuto ascoltare una magistrale lettura fatta recentemente da Paola Pitagora nella trasmissione radiofonica Fahrenheit (terzo programma Rai), che ha restituito al romanzo la sua modernità, la vivezza dei dialoghi, la presenza dei suoi grandi, classici personaggi. Fra l’altro Cenere è stato riproposto la scorsa primavera dalla giovane casa editrice Utopia, primo volume di un progetto che prevede la pubblicazione dell’intera opera di Deledda per la cura di Michela Murgia con cadenza annuale. Mentre da poco è uscito da un altro piccolo benemerito editore, Alessandro Polidoro, La madre, romanzo del 1920 fra i più potenti. La domanda allora è: riusciranno “i nostri eroi” a imporre finalmente alla distratta attenzione contemporanea un’autrice che fra Ottocento e Novecento, in Italia, si staglia (al femminile) tutta sola per grandezza, ma intorno alla quale nemmeno il Premio Nobel – vinto nel 1927 – è riuscito a dissipare un’ingiusta patina di antiquato regionalismo? Dovuto, temo, alla prepotenza iconografica delle immagini che la riguardano, non ai suoi libri. Appare sempre imbronciata e malinconica in fotografie tristissime che non le fanno giustizia, magari seduta a tavola in un modesto soggiorno, con figli e marito dai grandi baffi. Anche nei primi piani è troppo in posa, come chi ha problemi col proprio aspetto, è mal pettinata e mal vestita. Niente, insomma, che possa aspirare a costruire una leggenda attraente. Persino le cronache del Nobel la raffigurano in modo irritante e irrispettoso: una «brava signora» seduta ad ascoltare la motivazione con le gambe corte che non arrivano a terra, scrittrice naif che ha fatto solo le elementari, «sempre accompagnata dal marito, gentile, premuroso, discreto, e qualche volta chiaramente imbarazzato e nostalgico dei carciofi domestici». C’era una chiara malevolenza verso un’autrice sconosciuta ai più, che aveva sbaragliato prestigiose candidature: Edith Wharton, Thomas Mann, e connazionali come D’Annunzio, come Pirandello (che non gradì per niente, ma vinse, comunque, sette anni dopo).
La bassa statura, ereditata dalla nonna Nicolosa «piccolissima donna fragile, quasi nana, con mani e piedi da bambina», non le andava giù. Tanto che da giovane si aggiungeva centimetri: «Non sono bassa, figurati – 1,60». Quella «nonnina» le ricordava le fate della sua terra, dette le janas, così minuscole da vivere in certi buchi dentro le rocce. E un po’ jana era anche lei che non superava in realtà il metro e cinquantaquattro e di cui il figlio Franz avrebbe detto: «Aveva delle mani così minute e affusolate e diafane che sembravano quelle di una piccola fata». E con quelle piccole mani scrisse capolavori, riconosciuti dai grandi, severi critici di una volta, Pietro Pancrazi, Emilio Cecchi, Antonio Baldini, Bonaventura Tecchi. È Tecchi a capirla meglio di ogni altro quando scrive: «Nella saldatura fra cose dell’anima segreta e cose naturali, la cenere, l’acqua, il fuoco; in questa saldatura che direi autogena tanto è netta, senza aloni e senza residui, c’è un che di classico e insieme un bagliore di modernità». Si riferisce, Tecchi, all’Incendio nell’uliveto, ma è una “saldatura” che vale per la scrittura di Grazia Deledda nel suo complesso e che a me è sempre sembrato l’avvicini alla grande narratrice francese Colette, sua contemporanea: hanno la stessa capacità di descrivere sentimenti parlando del colore di una foglia, del profumo di un fiore, della luce frantumata di un bosco. Quando da giovane Grazia s’attardava fuori casa e la richiamavano ai doveri di brava ragazza, rispondeva: «No, non ci vado a casa. Devo osservare il tramonto del sole e come la luna illumina il monte: è il mio lavoro». In un autoritratto giovanile si descriveva così: «Ho vissuto coi venti, coi boschi, con le montagne; ho guardato per giorni, mesi e anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo; ho mille volte appoggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce, per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente… e così si è formata la mia arte, come una canzone…» Mi pare significativo che una “nuova” scrittrice come Veronica Galletta (premio Campiello Opera Prima l’anno scorso con Le isole di Norman, ed. Italo Svevo) introducendo il romanzo e chiedendosi «perché leggere Grazia Deledda oggi?» risponda: «perché assomiglia al canto, e il canto attraversa i tempi».
Come già D.H. Lawrence aveva notato, parlando di «lavoro sonoro e duraturo», nella sua prefazione alla traduzione in inglese de La madre. Lawrence fu forse il primo a cogliere la grande sensualità di Deledda e a stabilire la vicinanza della sua Sardegna alla selvaggia brughiera delle Cime tempestose di Emily Brontë. Anche Murgia, introducendo Cenere, nota come «in entrambe le autrici il paesaggio aspro e continuamente sconvolto dagli eventi meteorologici è sempre un ulteriore personaggio, metafora della natura umana in balìa di forze dalle quali può trovare solo temporanei ripari, prima di rivelare una volta per tutte quel fondo torbido dove tutti siamo e restiamo bottiglie perse».
Non sono mai idilliaci i paesaggi di Deledda. La natura che descrive è carica e passionale come era lei. Dietro quell’aria dimessa delle fotografie, c’era un temperamento acceso e indomito. Si era fatta insegnare da un fratello ad andare a cavallo e lo faceva sfrenatamente, da uomo, non seduta sulla sella con le gambe unite da una parte, come si conveniva a una donna. E non era per niente un’ignorante, ferma alle elementari. Se a Nuoro non aveva potuto continuare gli studi perché mancavano le scuole superiori, era stata però un’autodidatta che leggeva di nascosto (non era roba per femmine neppure la lettura) perché lei «voleva, voleva sapere» come scrisse in Cosima, l’autobiografia in terza persona pubblicata postuma. Aveva avuto la fortuna di un vicino di casa, un professore, che se n’era scappato via da Nuoro lasciandole tutti i suoi libri. E anche lei era determinata a scapparsene nel continente. Era determinata a diventare scrittrice, ad abbandonare usi e costumi che la legavano a tradizioni per lei inconcepibili. Pur amando la sua terra, alla quale costruì un monumento nei romanzi.
Romanzi complessi in cui si affrontano i grandi temi del bene e del male, colpa ed espiazione, aspirazioni umane e destino. Dal più famoso, Canne al vento, riflessione dostoevskiana sul libero arbitrio attraverso l’esistenza in declino di tre sorelle, le dame Pintor, Ruth, Ester e Noemi in un piccolo paese riconoscibile come Galtellì, nella provincia di Nuoro. O il dramma di Elias Portolu che nulla redime dall’aver commesso adulterio con la moglie del fratello. O il sacrificio tardivo di Olì, ragazza madre di Cenere, che dovrà espiare col suicidio il giovanile peccato per permettere al figlio illegittimo una vita normale e, forse, finalmente felice. E ancora uno dei miei preferiti, La madre che muore di crepacuore per il rimorso di aver sacrificato il figlio, volendolo a tutti i costi sacerdote.
Dei grandi romanzi non è mai significativo, o non solo, quel che raccontano, ma la voce con cui sono raccontati e indubbiamente quella di Grazia Deledda è una voce che ti penetra con la forza di un fado o di un canto polifonico barbaricino, brutale anche, ma colma di inaspettate dolcezze e di presenze evocative, fate, fantasmi. «La pagina di Deledda apre voragini improvvise» scrive un critico e scrittore dei nostri giorni, Massimo Onofri, introducendo il volumone della casa editrice Maestrale del 2010, in cui sono raccolti otto grandi romanzi deleddiani, compresi Colombi e sparvieri, L’edera, Marianna Sirca oltre quelli che ho già citato fin qui. E parla, Onofri, anche lui di “suono”, ma di suono che echeggia un «vuoto», che è un altro modo struggente di evocare la particolare musicalità della romanziera di Nuoro e delle sue storie, in cui «uomini e donne si affollano: mentre onorano la vita e, insieme, la disattendono consumandola, non si può non percepirne l’anticipata esperienza del nulla».
Sono personaggi vertiginosi, in particolare quelli maschili, che ho il sospetto anche l’autrice preferisse. Sul modello dei suoi due fratelli, Andrea e Santus, divideva gli uomini in banditi (intesi però in senso eroico, non malavitoso) e “incrinati” (vale a dire nevrotici). Scrive in Cosima di Santus che, dopo delusioni universitarie e un banale incidente coi fuochi d’artificio, si era “incrinato” «come s’incrina, a un urto, una tazza di cristallo, un vaso di porcellana». Passò il resto della breve vita a costruire giocattoli chiuso in casa e morì alcolizzato.
Lei aveva sposato un uomo «equilibrato, autosufficiente, per niente turbato dalla fama della moglie» (questo lo scrive la biografa Anna Dolfi in Grazia Deledda, Mursia), il mantovano Palmiro Madesani, uno su cui si poteva contare, che sapendo l’inglese le fece anche da agente letterario. E che ebbe l’iniziale merito di portarla a Roma, strappandola al chiuso mondo delle sue radici. Pirandello ne aveva fatto, già nel 1911, una ingiusta caricatura nel romanzo Suo marito. Ma Pirandello non amava quella coppia e, soprattutto, era uno di quegli intellettuali che disprezzavano, se non negavano, il genio femminile mettendolo in burletta.
Grazia amava Madesani, gli era profondamente grata, ne aveva bisogno. Ciò non le impedì di essere attratta, nella letteratura come nella vita da uomini, in genere intellettuali, sentimentalmente confusi, psicologicamente fragili, insomma incrinati. Le sue numerosissime lettere d’amore ne sono una sorprendente passionale testimonianza. E in Una dinastia italiana (Garzanti) di Tullio Kezich e Alessandra Levantesi, del 2010, si è finalmente sciolta la natura profonda del legame clandestino che, a Roma, la legò a Emilio Cecchi, legame rotto a un certo punto da lui in modo sbrigativo perché incapace di sostenere i sospetti della moglie, la pittrice Leonetta Pieraccini.
Storie d’amore a parte, lo sterminato epistolario di Grazia Deledda, che morì nel 1936, pubblicato solo casualmente e in piccolissima parte, è ancora lì che attende un editore e un pubblico. Nella plaquette del 2004 Lettere inedite di Grazia Deledda ad Arturo Giordano, direttore della “Rivista Letteraria” (Nemapress) osserva giustamente Neria De Giovanni, fra le più importanti studiose della scrittrice: «Gli epistolari deleddiani ad amici, innamorati, scrittori, editori, giornalisti… sono una miniera inesauribile di notizie, non soltanto interne all’opera…, ma soprattutto preziose informazioni sui protagonisti culturali a partire dalla fine dell’Ottocento». Quelle informazioni di cui una società letteraria che si rispetti non dovrebbe fare a meno.
Una delle poche, se non l’unica, casa-museo di scrittrice in Italia è quella di Nuoro dove Deledda nacque. Come dicono le guide «vale il viaggio»: nella strada che ha preso il suo nome, di fronte al “suo” monte, l’Ortobene, che ritroviamo nei libri che ha scritto, è una casa-torre ben conservata e fa capire, specie negli interni arcaici (li ha descritti nel bellissimo Cosima), da cosa scappava Grazietta con incredibile determinazione, e perché, se fosse rimasta, non sarebbe potuta diventare la scrittrice che è. Quella che stiamo forse tornando a leggere approfittando dei centocinquant’anni dalla nascita (fra i tanti anniversari che si celebrano quest’anno, quello di Deledda è passato sotto silenzio). Sarebbe un’esperienza importante: la scoperta di un’opera calda e grandiosa, e di una donna, appassionata e insieme saggia, che in una lettera ai figli li istruiva così: «Bisogna cercare di vivere sopra la propria vita come la nube sopra il mare».