Due grandi perdite (Immaginazione 326, nov.dic. 2021)

Due grandi perdite (Immaginazione 326, nov.dic. 2021)

Bobi Bazlen

Il leggendario Roberto (Bobi) Bazlen, presente nell’assenza come sempre, ha stabilito stavolta una relazione, nella vita e nella morte, fra due autori che più diversi non potrebbero essere, Roberto Calasso e Daniele Del Giudice, scomparsi nello stesso anno, questo pesantissimo 2021, il primo il 28 luglio ottantenne, il secondo poco più di un mese dopo, il 2 settembre, a 72 anni. La vita di Calasso si è svolta, editorialmente parlando, nel segno di Bazlen, “mente” dell’Adelphi, e proprio Bobi s’intitola uno dei due brevi testi – l’altro è la raccolta di ricordi soprattutto infantili Memè Scianca – che Calasso ha voluto uscissero insieme, nel giugno scorso, ultimo saluto ai suoi lettori. Anche Del Giudice deve l’ingresso nella storia della letteratura e dell’editoria a Bazlen: il suo fulminane romanzo d’esordio, Lo stadio di Wimbledon, è il tentativo di svelare un mistero: perché un certo intellettuale triestino, generalmente ritenuto un genio e un mago della scrittura altrui, si fosse sempre rifiutato di scrivere. «Chi fosse questo personaggio – una figura originale nella vita letteraria italiana, amico di poeti e scrittori – non importa» scrisse Italo Calvino in quarta di copertina «perché nel romanzo il suo ricordo affiora solo indirettamente e in lontananza, e soprattutto perché  si direbbe non importi nemmeno al giovane che pur sta seguendo le tracce della sua leggenda».

E invece importa moltissimo. Era il 1983, Lo stadio di Wimbledon, sorretto dall’avallo di uno scrittore pestigioso e influente come Calvino con una casa editrice, l’Einaudi – che era ancora quella di Giulio Einaudi pur se sull’orlo dell’abisso e del passaggio alla Mondadori – comparve nello scenario letterario come una bomba restituendo carisma ai cosiddetti “giovani scrittori” e rivelando ai più la figura eccezionale di Bazlen. Non si parlava d’altro, e Del Giudice, assunto anche in casa editrice come consulente, divenne, dal rispettato giornalista di Paese Sera che era, un intellettuale fra i più invidiati dell’editoria italiana.

Finalmente ripubblicato adesso dall’Einaudi sull’onda della risonanza della morte dello scrittore, dopo la ferita insopportabile di un decennio di malattia progressiva, Lo stadio di Wimbledon ripropone a nuovi lettori la lucida, secca prosa, molto visiva di Del Giudice affrontando un tema che in quegli anni di postavanguardia era dibattutissimo: perché scrivere quando tutto è stato già detto? Una questione che oggi è messa incredibilmente fra parentesi, proprio oggi che assistiamo a un eccesso di produzione romanzesca senza che gli autori si pongano minimamente il problema del perché scrivono.

Roberto Calasso

Il Bobi di Calasso (edito da Adelphi come tutti i suoi libri) conferma la leggenda di Bazlen: quel suo stile fatto «di una certa rapidità insolente, un impulso a passar oltre, senza lasciarsi invischiare», l’essere una «sorta di uragano silenzioso»… E fornisce alcuni aneddoti che formano anche un po’ l’autobiografia di Calasso da giovane, quando descrive il periodo in cui lo conobbe nei primissimi anni ‘60: «I talenti non mancavano – anzi, a distanza di qualche decennio, fa quasi spavento pensare a quella profusione imponente, se si guarda alla pochezza di ciò che le fece seguito -, ma qualcosa mancava. E forse l’essenziale. Bazlen fu per me quell’essenziale».

Un’autobiografia che, guardando più indietro, all’infanzia, viene in primo piano in Memè Scianca, nomen omen che contiene cioè un augurio, un destino. Così infatti s’era ribattezzato da piccolo: «non si poteva dire che il suono fosse lusinghiero. Memè faceva pensare alla malavita, Scianca  a un’infermità». Eppure volle essere Memè Scianca, per scoprire nel tempo, diventato un fervente lettore di Proust a soli 13 anni, che «Memè era un soprannome del barone di Charlus» e ancora più avanti che «in sanscrito, shankha significa conchiglia», e lui sarebbe stato un giorno, oltre all’illustre direttore e presidente dell’Adelphi, uno studioso dei Veda e dei miti indiani. Basta ricordare il rigoglioso KA del ‘66.

Daniele Del Giudice

Esiste un curioso scritto di Del Giudice (pubblicato nel ‘95 da Campanotto in una raccolta di scritti, Per Roberto Bazlen, di autori vari in occasione di un convegno che si era tenuto qualche tempo prima) ripreso – senza citare la fonte – in un libro di saggi vari, In questa luce (Einaudi 2013). Lo definisco sorprendente, perché sembra composto prima dello Stadio di Wimbledon. È infatti la fantasia di un autore che vuole scrivere «su un personaggio di romanzo… un non-scrittore», su Bazlen insomma, e che immagina come sarà il suo libro per filo e per segno…ma se il libro era stato già portato a termine e pubblicato, che senso ha? Uno scherzo? Un vecchio scritto riciclato? (Fra l’altro molto bello…) Un editore serio non dovrebbe spiegarne l’origine? In mancanza di appigli, opto per uno “scherzo d’autore”, atteggiamento fra l’altro tipico di Del Giudice che sapeva essere divertente e paradossale. E che, comunque, non finiremo mai di rimpiangere.

 

 

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