Ritratto di Leonora Carrington (IlFoglio, 28/5/22)

Ritratto di Leonora Carrington (IlFoglio, 28/5/22)

Leonora Carrington

La forza che muove il mondo è la paura. Questo pensava Leonora Carrington, artista e scrittrice, che nelle sue opere, quadri e libri, non ha fatto che ritrarla la paura. Sotto varie forme possibili, tutte spaventose – va da sé – e complicate, ibride, favolose. I dipinti esposti alla Biennale di Venezia, che quest’anno giustamente la celebra all’interno di una mostra dal titolo Il latte dei sogni, ne offrono vari esempi. E Il latte dei sogni è anche il titolo di un suo curioso libro per l’infanzia, tradotto da Livia Signorini per Adelphi nel 2018, in cui ci sono bambini che perdono la testa, cavalli che fanno la cacca nella camomilla, avvoltoi che cadono nella gelatina e vi restano intrappolati in un’affascinante trasparenza artistica. Le illustrazioni sono della stessa Carrington e i bambini non si spaventano minimamente, anzi ridono come pazzi, soprattutto quando alcune mosche, cui un tipo taglia le ali, si trasformano in formiche e corrono qua e là sul pavimento «mangiando cacchette di conigli». I bambini, del resto, sono maestri quando si tratta di paura, vanno pazzi per le favole che ne incutono tanta ed è solo una consolazione per gli adulti quella di aspettarsi un lieto fine. Ai bambini piacciono i mostri senza pietà, le storie veramente tremende, e la brutta fine dei due porcellini sprovveduti va per la maggiore rispetto alla scaltra vittoria del terzo, che si mette in salvo in una casa di pietra. Anzi ho il sospetto che quel terzo porcellino venga perdonato dai piccoli lettori solo perché assicura comunque una fine orrenda alla storia facendo cadere il lupo nel pentolone della minestra a bollirsi vivo ben bene.

Se ne vedono tante di creature sinistre e inclassificabili nei quadri di Carrington come in tutti i racconti che ha scritto, e bisogna proprio avere «inclinazione ai disordini ben regolati dell’intelligenza», come scrisse Giorgio Manganelli, per apprezzarla. Uno dei più famosi dipinti, la Corsa di ermellini dei primi anni Cinquanta, è ambientato in un labirinto a forma di rosa dove si muovono bianchi ermellini in rincorsa ossessiva di figure inquietanti: donne, uomini, animali? Chissà. Apparizioni notturne, fantasmi, individui enigmatici nudi o ricoperti di pelliccia, teste adorne di capelli scomposti o di strani copricapi, braccia spalancate, ma mai invitanti. È anche la copertina, giustissima, del romanzo (chiamiamolo così) Il cornetto acustico, scritto da Leonora nel ’76, tradotto da Ginevra Bompiani una decina di anni dopo, e ora riproposto da Adelphi con la stessa impeccabile traduzione. Nel ‘76 Carrington non ha ancora sessant’anni, ma sceglie una protagonista novantanovenne, Marion, figlia di una madre che di anni ne conta centoventi ma vive in un continente lontano; e altro non è dato saperne. Marion, scaricata dai nipoti, finisce in una soltanto in apparenza elegante, in realtà assai poco rassicurante, casa di riposo e deve rinunciare con grande dolore ai suoi due gatti (li ritroverà più avanti grazie all’amica Carmella di poco più giovane). Era il suo grande passatempo pettinare il pelo ai gatti e non si dava pace di esserne stata privata.

Sosteneva Karen Blixen, osservando l’Africa dove aveva vissuto a lungo, che quando le donne invecchiano e perdono il potere della seduzione fisica, si devono andare a cercare altri poteri più forti e temibili, e così in tante si fanno streghe (lei più semplicemente si fece scrittrice). È una lezione che Leonora fa sua. A parte le figure stregonesche che popolano la sua pittura, la seconda parte dello stravagante Cornetto acustico non è forse una palese messa in racconto di tale teoria? Vediamo le vecchie, in qualche caso decrepite, signore dell’ospizio che si organizzano alla rivolta contro gli avidi gestori: prima compatte in uno sciopero della fame che le rende tutte molto simili alle figurine smilze e lunari dei quadri di Carrington, poi scatenandosi in veri e propri sabba dove risuona «il riso da pazza di Marion» e si rimesta in calderoni di ferro che, a saltarci dentro, rivelano il vero sé producendo alla fine l’incarnazione di «una grande figura femminile», Zam Pollum, la Regina delle Api dal potere sterminato e annunciatrice di Nuovi Tempi popolati esclusivamente «da gatti, licantropi e capre», tempi che si sperano migliori di quelli vecchi dominati dall’umanità.

Leonora con Max Ernst

Perché non è solo labirintica Leonora Carrington. Gioca anche molto a fare la veggente, fra eros e follia. Fu preda nella vera vita dell’uno come dell’altra, quindi il suo più che un gioco letterario è riflesso nell’opera della biografia. Per questo leggerla genera apprensione. Si sprofonda con lei nelle visioni che devono aver invaso il suo immaginario, i suoi sogni o meglio incubi, si ha la sensazione di sprofondare Giù in fondo, come recita il titolo di un altro suo libro (Adelphi 1979, tradotto ancora una volta da Ginevra Bompiani), «uno di quei viaggi da cui si hanno poche probabilità di tornare» scrisse André Breton che l’aveva incoraggiata a scrivere per raccontare «il disastro della libera circolazione dello spirito». Lo spirito lo faceva circolare liberamente fin da piccola, allarmando molto il padre, ricco industriale tessile inglese, che avrebbe desiderato una figlia convenzionale. Ma Leonora convenzionale non fu mai, nemmeno da bambina (era nata nel 1917), suggestionata dai racconti di uno stuolo di governanti fantasiose nella casa di Westwood a Clayton, nel nord ovest britannico, e da quelli della madre che s’ispirava al folclore irlandese delle proprie origini. Fu la madre a capirne e stimolarne le inclinazioni artistiche e a proteggerla in qualche modo da quel padre padrone e dalla disparità di trattamento riservata ai fratelli, mandandola quindicenne a studiare arte a Firenze. «Dicono non stia bene che le ragazze facciano le stesse cose che fanno i ragazzi. Non è giusto. Io ho tre fratelli. Possono fare sempre tutto quello che vogliono solo perché sono ragazzi. Non è proprio giusto» si lamenterà in un racconto del 1976, La porte de pierre, attraverso un personaggio femminile.

Breton era stato un incontro dei suoi anni francesi, i non più ruggenti Anni Trenta, quando diciannovenne si era follemente innamorata del quarantaseienne Max Ernst, allora amico di Breton ed esponente di spicco del Movimento Surrealista. Anzi le cose erano andate così: la giovane Leonora s’innamora innanzi tutto di un quadro di Ernst (Due bambini sono minacciati da un usignolo), lo vede sulla copertina di un libro, regalo della madre, e il caso vuole che in quello stesso anno, il 1936, un amico comune li presenti l’una all’altro. «Leonora era un misto di furore italiano, eleganza scandalosa, capriccio e passione» la descrive Ernst, uomo di enorme fascino e dall’indole spiccatamente erotica, attratto per tutta la vita da donne molto più giovani. Lei s’innamora di un gesto che lui fa a tavola: ficca un dito nel suo bicchiere, nella schiuma della birra, per non farla straripare. Lei lo trova irresistibile. E così lui lascia una moglie precedente e la sposa.

Vanno a vivere in Provenza. Scopano molto, dipingono. Si fanno anche reciprocamente il ritratto: lei lo avvolge in una pelliccetta rossa femminile e lo fa proteggere da un grande cavallo bianco (figura totemica che torna spesso nella sua pittura); lui la vede fata o strega in mezzo a una fitta vegetazione, e il cavallo che la sorveglia è scheletrico e biondo, ma c’è anche una specie di bue-drago.

Ernst vistop da Carrington

Quando poi lei cucina, lui le fa compagnia leggendole un libro o correggendo il francese zoppicante dei racconti che Leonora va scrivendo. Tuttavia, molti anni più tardi, Carrington dirà in un’intervista: «Una relazione d’amore implica sempre un rapporto di dipendenza. Penso che molte donne – dovrei dire persone, ma in realtà sono quasi sempre le donne la parte dipendente – siano finora state schiacciate, forse addirittura annientate da questo tipo di dipendenza». E se non annientata, poco stimata si sente anche dagli amici pittori, e dallo stesso compagno di vita. «André Breton e gli uomini del gruppo erano molto maschilisti, ci volevano solo come muse folli e sensuali, per divertirli, per soddisfarli. Essere una donna surrealista significava, per lo più, preparare la cena per gli uomini surrealisti». Ma in quegli anni lontani non fu la sua consapevolezza femminista a rompere l’idillio, bensì la Storia. Nel ’39 Ernst viene arrestato una prima volta, perché tedesco sgradito al governo francese, e Leonora ha modo di toccare con mano la propria dipendenza da lui: è disperata e incapace di gestire la quotidianità. Le cose precipitano quando, dopo essere stato brevemente rilasciato, viene di nuovo arrestato, dalla Gestapo stavolta, che lo considera un “artista degenerato” e lo interna in un campo di concentramento. Ad aiutarlo non può essere lei, completamente fuori di testa, ma una potente rivale, Peggy Guggenheim che ne ottiene la liberazione e lo porta con sé in America. Poi lo sposerà anche. Ma questa è un’altra storia.

Leonora vista da Max

Quella di Leonora continua così: scappa in Spagna e viene internata in manicomio con corredo di elettroshock o terapie simili. Quando ne esce scappa di nuovo, perché il padre vorrebbe spedirla in Sudafrica e rinchiuderla in un’altra casa di cura. Lei invece se ne fugge in Portogallo dove, grazie a un matrimonio di convenienza con il poeta messicano Renato Leduc, conosciuto a Parigi a casa di Picasso e ritrovato in un ufficio dell’ambasciata di quel paese lontano, ottiene il passaporto per lo stesso continente dove si è trasferito Max Ernst. E così eccola in Messico, in una terra dall’immaginario tanto simile al suo. Qui comincia una nuova vita, forse persino felice, soprattutto quando incontra il terzo marito, il fotografo ungherese e manager Emerico Weisz, detto Chiki, amico di Robert Capa, dal quale ha due figli. La loro casa diventa punto d’incontro di artisti messicani ed europei scappati durante la guerra. Fra loro Leonora stringe una grande amicizia con la pittrice spagnola Remedios Varo, presente anche lei alla Biennale di Venezia di quest’anno. Avevano in comune, oltre alla passione artistica,  l’interesse per l’esoterismo. È Remedios il modello di Carmella nel Cornetto acustico. Carmella che legge le carte e prevede il futuro, Carmella a cui Carrington affida questa considerazione: «Gli uomini sono molto difficili da capire. Speriamo che muoiano tutti assiderati. Sono sicura che sarebbe molto gradevole e salutare per gli esseri umani non subire nessuna autorità di nessun genere. Sarebbero costretti a pensare da soli, invece di farsi sempre dire che cosa fare dalla pubblicità, dal cinema, dai poliziotti e dai parlamentari». In Messico Carrington riprende anche a scrivere le sue storie pazze (alcuni racconti pieni di cani che ballano, vecchie che si azzuffano, cavalli imbizzarriti e altre favolose creature, sono raccolti in La debuttante, sempre Adelphi). E dipinge quadri visionari e scolpisce grandi sculture dove anomali coccodrilli si alternano a giganteschi uccelli o a donne dalla testa di gatto. «Scrivere, dipingere sono per me strumenti per viaggiare; anche se non sempre so dove sto andando o cosa questo viaggio significhi» ha detto della sua opera. E in America, a New York rivide pure il suo grande amore, Max Ernst, risposatosi ancora una volta con la molto più giovane scultrice Dorothea Tanning. Ma niente degli antichi furori erotici, che si sappia, si riaccese fra loro.

Nel 1963 le fu commissionata dal governo messicano la creazione di un murale per il museo antropologico della capitale. Dedicò l’opera a  El Mundo Magico de los Mayas e per realizzarla visitò il Chiapas, nelle sue zone più selvatiche e antiche alla ricerca delle origini e degli usi e costumi delle antiche popolazioni. Il risultato è una pittura in cui elementi realistici di quella remota parte della terra sono evocati attraverso il consueto filtro magico e visionario che si sposa perfettamente con l’immaginario artistico di quella zona.

È morta a Città del Messico il 25 maggio del 2011a novantaquattro anni.

 

 

 

 

 

 

 

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