Le due Annalene (IMMAGINAZIONE n.336 luglio-agosto’23)
Questa volta parlerò un po’ di me per parlare di un libro che mi ha colpito molto, Annalena (Einaudi, 145 pagine, 17,50 euro) di Annalena Benini. Mi ha colpito perché mi ha rimandato a un periodo della mia vita in cui m’interrogavo, assai più di quanto faccia oggi, sul Bene e sul Male. Avevo superato da poco i quarant’anni e cercavo la spiritualità nel buddismo. Nel 1995 feci il mio primo viaggio in India girandola in lungo e in largo, da sola, e andando a visitare diversi ashram di diverse comunità mistiche, dirette da guru dalle diverse caratteristiche, per vedere se attraverso la meditazione e altre pratiche riuscivo ad arrivare a un qualche punto superiore della conoscenza e a stare meglio con me stessa. Il risultato di quel viaggio, primo dei tanti che feci nel decennio successivo (ma senza più cercare in India necessariamente “l’anima”) fu un piccolo libro a cui sono particolarmente affezionata, Ultima India, pubblicato nel 1996 da Baldini&Castoldi e poi ripreso dieci anni dopo nel catalogo Neri Pozza. Meditavo su Gandhi e Simone Weil, grandi spirituali che avevano scelto di conformare le loro esistenze al Bene e scrivevo cose così: «Quanto si somigliano la Weil e Gandhi, intransigenti, maniacali; due che da se stessi hanno preteso l’impossibile facendolo diventare possibile; stessa titanica volontà di controllare il corpo e gli appetiti. Stessa aspirazione a essere come piante e vivere di luce, di sole, senza distruggere nulla, nessuna forma vivente.Stessa convinzione che gli esseri siano fondamentalmente buoni, capaci di bene. Se l’uomo fosse naturalmente malvagio, perché avrebbe in sé la possibilità di essere un santo? E perché ammiriamo i santi? Dovremmo considerarli pazzi. E invece hanno un potere di fascinazione travolgente che evidentemente fa leva su qualcosa che è dentro ogni creatura: l’aspirazione al Bene». Anche se non ne siamo all’altezza.
Nel suo Annalena Benini si interroga intorno a simili problematiche, mossa dalla figura eccezionale di una lontana parente che portava il suo stesso nome di battesimo, Annalena Tonelli, donna radicale nelle scelte e nei risultati, mistica, missionaria e martire (fu uccisa in Somalia, a sessant’anni, da due sicari nell’ottobre del 2003). Anche Tonelli pensava come Weil che «soltanto la perfezione è sufficiente», che «importa solo il Bene», e mangiava pochissimo. Ha speso la sua vita per gli altri, in Africa, indifferente alle misere aspirazioni, ambizioni, rovelli di noi comuni mortali.
Seguo da sempre Annalena Benini nel suo lavoro giornalistico, critico, narrativo sulle pagine del Foglio. Mi piace il suo modo di esprimersi autoironico e la sua capacità di provare ammirazione per il lavoro degli altri. Mi sono sempre chiesta, leggendola, perché non scrivesse un romanzo, viste le tante qualità che possiede e che spesso, pure troppo generosamente, riconosce in altri narratori. Ecco, ora l’ha fatto, e ha fatto anche di più, perché in realtà ha scritto un non-romanzo (o forse un romanzo di formazione sotto mentite spoglie) e io amo particolarmente questo genere ibrido, romanzi che sono ricerche che sono biografie e sono autobiografie, tutto insieme. Annalena è il disperato confronto con l’impossibile – lei lo definisce dismisura – per arrivare ad accontentarsi del possibile e fare pace con se stessi. Anche perché, mi pare, scrivendo questo libro Benini l’ha raggiunta una sua dismisura ben al di là del successo professionale (ha fondato e dirige il magazine mensile allegato al Foglio, Review, ed è stata nominata direttrice del Salone del Libro di Torino per i prossimi tre anni). La dismisura di una scrittura originale, solo sua, la conquista di una voce letteraria che è il modo di un autore per diventare (parafrasando Jung) ciò che è, ovvero autentico. E forse pure in questo, non solo nella dismisura della santità, una forma di Bene c’è.