La casa di Mario o di Emanuele? (IlFoglio, 21 ott.2023)
Il padre, Mario, era di un ordine maniacale. Il figlio, Emanuele, il più disordinato sulla terra. Da quando, non riuscendo a vendere dopo la sua morte, dodici anni fa, lo studio del padre, Emanuele Trevi ha deciso di andarci a vivere, il disordine del figlio si è imposto sull’ordine paterno. È la prima volta che torno in questo appartamento dove sono stata in terapia con lo psicanalista junghiano Mario Trevi, uno che quando ne dici il nome, in una certa cerchia, hai l’impressione che tutti si alzino in piedi. Ci torno per intervistare il figlio a proposito del suo ultimo libro, La casa del mago (Ponte alle Grazie), e la casa del titolo è questo appartamento. Ho detto junghiano perché junghiana era la sua formazione, ma lui non amava le etichette. Diceva che ormai gli analisti utilizzano metodi di scuole diverse secondo le necessità dei pazienti. Insomma, ho avuto bisogno di un motivo di lavoro per rientrare nell’antro. Per quanto Emanuele mi avesse proposto già varie volte di “farci un salto” – perché se dal padre sono stata in analisi, il figlio lo conosco per vie diverse da altrettanto tempo, dai primissimi anni ’90 – con una scusa o con l’altra avevo sempre declinato l’invito.
Adesso la casa è irriconoscibile con tutte le cose in grande confusione. Meglio così. Dopo una rapida visita in giro in cui cerco di ricostruire l’antica disposizione – la sala d’attesa, per dire, è diventata camera da letto – mi siedo rassicurata su un divano dello studio, divano che prima non c’era. Però alle nostre spalle incombe un oggetto speciale che è rimasto esattamente al suo posto: la scrivania gigantesca dietro cui Mario riceveva i pazienti in un vis-à-vis distanziato e forse protettivo per lui. Anche se adesso mi pare un po’ meno enorme rispetto al ricordo. Ma forse è il ricordo di un sogno in cui facevo il giro dalla mia poltrona girevole a quella del terapeuta e mi sedevo sulle sue ginocchia.
«Non avresti potuto, vedi?» mi dice Emanuele e mi mostra che il passaggio laterale è bloccato da una specie di cassettiera.
Ma allora non c’era la cassettiera, insisto io.
«Certo che c’era. È sempre stata lì, nessuno ha spostato niente!»
Va bene, ci credo. E poi comunque non avrei potuto perché lui, Mario, mi aveva avvertito: «Guardi che in terapia si può fare tutto, ma soltanto a parole.»
«Il mio disordine lo divertiva, non credere!» mi dice Emanuele vedendomi disorientata. «In genere gli ordinati credono di avere una superiorità sui disordinati. Mio padre no. Io non capisco il fatto di dover mettere in ordine le cose, proprio non lo capisco. E a lui in fondo non dispiaceva.»
Lo so, lo scrivi nel libro precedente che hai firmato con lui, Invasioni controllate (Castelvecchi), la bellissima intervista che gli hai fatto nel 2007. Lì a un certo punto lui ti dice: «Il disordine è connesso alla creatività». Parlava del set analitico, ma chissà forse anche di te, con affetto e riconoscimento. Eravate due personalità molto diverse. Non deve essere stato facile avere un padre se non assente, distratto, murato nei suoi pensieri…
«Era un uomo affascinante e misterioso. Gli amici lo capivano, le sorelle lo adoravano. Con lui non ho fatto quello che in genere si fa con i padri, però tutto sommato è stato un buon padre».
E poi vogliamo dire che non è da tutti ricevere in fasce la profezia di un grandissimo come Ernst Bernhard, il Maestro di tuo padre, che volle leggere la tua manina per decidere (lo trovo nelle Invasioni controllate) che saresti stato «un uomo interessante e geniale»? E tu, per tutto ringraziamento, una volta adulto e ricevuto addirittura un oroscopo redatto alla tua nascita, quel che si chiama “carta del cielo” sul destino dell’intera vita, e che tuo padre non aveva mai ritirato da Bernhard perché in fondo ci credeva poco, tu cosa fai? Te lo perdi subito in un supermercato…
«Dovevo assolutamente fare la spesa, quel giorno! Ma l’avevo sistemato nel carrello proprio per non dimenticarmelo! E invece cosa ho fatto? Arrivato il momento di passare alla cassa, è rimasto sul fondo e l’ho perso per sempre.»
Deve essere un altro aspetto del disordine… Adesso, però, vorrei parlare di autobiografia. La risposta veramente è già ne La casa del mago, racconto che è pure riflessione sui propri strumenti artistici: «La consapevolezza della morte è come al centro di ogni tipo di scrittura, e in particolare di quella autobiografica. Si potrebbe arrivare a dire che di qualsiasi cosa apparentemente parli la scrittura, questo muco dell’Io, il suo unico argomento reale è la morte». Dunque il libro non vuole essere in nessun modo una resa dei conti. In effetti, a ben leggere, parli più di te che di Mario Trevi.
«Questa cosa del fare i conti proprio non la capisco. Le persone di cui scrivo mi hanno allietato la vita, la loro compagnia mi ha ispirato, mi ha aperto nuovi orizzonti. Così mio padre. Aveva un’arte che lo assorbiva, che era la cosa più importante della vita: la sua professione. A me la sua… chiamiamola “assenza” non ha tolto niente. Forse ha tolto qualcosa a mia madre, ma penso che ciò che toglieva alla famiglia lui lo investiva altrove, e questo va rispettato».
In una rara intervista ad Antonio Gnoli su Repubblica, nel 2010, un anno prima di morire, a ottantotto anni, Mario dice che tu lo consideravi un po’ un vecchio padre da proteggere. Ed effettivamente La casa del mago dà questa impressione fin dalla prima pagina, quando scrivi la frase che ripeteva tua madre in qualche modo affidandotelo o mettendoti in guardia: «Lo sai com’è fatto». E tu commenti: «Era evidente, d’altra parte, che non lo sapeva nemmeno lei com’era fatto, non lo sapeva nessuno». E poi racconti di te ancora bambino che a Venezia da solo con lui, per non perdertelo e seguendo i consigli di tua madre, ti sei attaccato alla cintura dell’identico impermeabile di un altro, finendo tu col perderti… Una scena indimenticabile, struggente. Ma, insomma, il mago del titolo quando si è palesato nella tua vita, sostituendo questa presenza evanescente, inaffidabile?
«Beh, certo, io lo vedevo come una persona buffa, distratta. L’idea del mago mi è poi venuta dagli altri nella vita, i tanti suoi pazienti che mi è capitato di conoscere, e che mi hanno rimandato una sua immagine sciamanica, risolutiva nei loro destini. E a quel punto ciò che lui era per gli altri si è tranquillamente incastrato con ciò che ne vedevo io. A un figlio è evidente l’incapacità di vivere di un genitore, ma proprio questa incapacità, altrove, diventa il terreno della cura. Figure come quella del mago sono mediatrici fra caos e accettazione e danno alla persona da guarire il meglio di sé. Mio padre era dotato di quel dono, un dono che si esprime nella relazione fra terapeuta e paziente».
La parola mago fa venire in mente Thomas Mann, che i figli avevano soprannominato così, e poi è uscito di recente il romanzo biografico Il Mago di Colm Tóibín, dedicato a lui. Ci hai pensato?
«Mah, sì, però non c’entra niente. Il libro di Tóibín l’ho letto, mi ha colpito molto. Io ho pensato, come ti dicevo, alle capacità terapeutiche di mio padre. Di letteratura non parlavamo mai. Non so nemmeno se gli piacesse quel che scrivo io. Gli devo molto invece per la pittura, ne sapeva tantissimo, ha molto frequentato i pittori. Però su Mann ci saremmo incontrati. Aveva gusti classici».
Ora Emanuele si alza e mi porta di nuovo alla scrivania, mi mostra i disegni di Mario e i sassi che passava ore a levigare e soprattutto una vecchia edizione di un volume dell’opera omnia di C. G. Jung, Simboli della trasformazione.
«Mi sono messo a leggerlo perché l’ho trovato qui, sotto il ripiano della scrivania. Lo teneva isolato dagli altri libri, pieno di note ai margini, note spesso critiche rispetto al testo. E per me, che ho un procedimento saggistico nella scrittura, questa scoperta è servita tantissimo. Ho trovato affascinante l’arbitrio di Jung, la sua capacità di passare di palo in frasca, come si dice, fregandosene di una logica scientifica… E poi è un ritratto questo libro, un ‘ritratto di signora’ che Jung non aveva mai incontrato di persona, e a me, fin da giovane, interessa l’arte del ritratto come tecnica della rappresentazione dell’unicità. In Due vite ho cercato di farne una teoria: quando le parole ti fanno amare una persona che non hai mai conosciuto… »
Esercizi di ammirazione.
«Sì, proprio così, esercizi di ammirazione o autofiction condizionata, se vuoi. Non sono centrali gli oggetti, ma le persone. Come in Emmanuel Carrère. Anche in Annie Ernaux, ma la Ernaux non fa esercizi di ammirazione. Mi sono lasciato molto influenzare dalla scrittura di Pietro Citati. Certo io ho un lato pop e comico che lui non aveva. Aspetta: tutto ciò che mi piace nella scrittura è l’alchimia che sa fare Roberto Longhi con l’arte. Ecco, io mi chiedo: dove può arrivare la critica letteraria? Mettere un po’ di sé stessi ma senza diario…»
Emanuele, fermati. Torniamo a La casa del mago. A un certo punto, ti metti a raccontare Simboli della trasformazione e, soprattutto, le tue razioni a quella lettura, e non solo per le notazioni con cui lo istoriava tuo padre. È la tecnica del passare di palo in frasca? Come quando nel tuo racconto fanno irruzione due peruviane, la Degenerata, come la chiami tu, una tua colf più disordinata di te, e una sua cugina, Paradisa, con cui hai una storia di sesso e anche una specie di amicizia. Che c’entrano con Mario Trevi la Degenerata e Paradisa, figure per altro adorabili che cambiano il ritmo della scrittura? Parliamone.
«Degenerata e Paradisa sono l’irruzione del principio di realtà. Quando sono venuto a vivere in questo appartamento, sono sprofondato nell’irrealtà. Non era casa mia e vi succedevano cose strane.»
Sì, lo racconti: apparizioni di oggetti, sparizioni, loro spostamenti nello spazio… Fantasmi? Intrusioni nottetempo di qualcuno che misteriosamente aveva le chiavi?
«E non li ho raccontati tutti i misteri di questa casa! Non volevo farla troppo lunga. Ma le due degenerate si sono rese necessarie, nella mia vita come nel racconto, per bilanciarne la parte enigmatica.»
Succede sempre nella narrativa di Emanuele Trevi, profondità e leggerezza si intrecciano come il romanzesco e il saggistico, l’autobiografico e il biografico. Se non ci fosse anche la storia esilarante dei soprusi della colf Rocio, detta Degenerata, vera devastatrice di appartamenti anziché linda donna di servizio, e l’improbabile storia d’amore con Paradisa, dolcemente mercenaria ma non solo, La casa del mago non sarebbe un libro di Emanuele Trevi, ma solo un insieme di ricordi familiari affettuosi e bizzarri, non sarebbe pop e non ci si piegherebbe in due per il troppo ridere leggendo certe pagine. Ma c’è ancora un altro personaggio di cui dobbiamo parlare, la Visitatrice. Così almeno viene chiamata nel libro la presenza misteriosa che nottetempo lascia indecifrabili segni di sé, mozziconi macchiati di rossetto, fiori nel vaso che prima non c’erano, pile trafugate dal telecomando. Ne sei venuto a capo nel frattempo?
«Direi di no… a meno che… A un incontro del premio Strega una volta mi si è avvicinata una donna eccessivamente magra e mi ha stretto un braccio in modo stranamente intenso, senza aprire bocca, ed è subito scappata via, un’affascinante anoressica. Una paziente? E perché aveva le chiavi? Magari era riuscita a trafugarne un mazzo durante una seduta?»
Per fortuna ti sei deciso a cambiare la serratura.
«Un po’mi manca la misteriosa Visitatrice.»
E tuo padre ti manca?
«Scrivendo questo libro ho capito quanto somiglio a mia madre. Siamo creature di relazione io e lei. Va bene, io vivo solo, ma rispondo al telefono, perché – appunto – mi sento dentro un flusso di relazioni. Anche quando lavoro, m’interrompo se qualcuno mi cerca, e seguo i segnali intorno. Mi riconosco dentro un sistema di senso e di affidabilità. Certo sono trasandato e orientato al piacere, ma con i piedi per terra. Se devo dire, mi manca molto Dudù La Capria, che mi era più vicino di quanto mi sia mai stato vicino mio padre. Avevamo una frequentazione quotidiana, pure pettegola, leggera, a volte litigiosa».
Nella Casa del mago a un certo punto scrivi che Mario Trevi aveva il tocco del Maestro perché sapeva ricollocare l’anima ferita «nell’insondabile meccanismo del suo destino». Alla fine sei riuscito, magari anche grazie a questo libro, a ricollocare la tua anima ferita nell’insondabile destino di questa casa, facendone veramente casa tua?
«Sai quel racconto stupendo di Katherine Mansfield, Preludio, in cui c’è un trasloco e lei racconta come i diversi personaggi si adattano al cambiamento? Il corto circuito è trovarsi in un posto saturo di un’attività estranea e farlo proprio. Adoro la Mansfield, è la più grande… Ma insomma, per rispondere alla tua domanda: direi di sì, ora la sento mia. Del resto, lo vedi quanto mi somiglia questo disordine?»
E dal disordine prende uno dei sassi levigati dal padre e me lo regala.