Considerazioni sull’invecchiare (L’Immaginazione 339, gennaio ’24)
Quando scrissi Vecchi, uscito nel 1994 con Theoria e ristampato cinque anni dopo da Baldini&Castoldi, avevo quarant’anni, m’interessava il buddismo e coltivavo della vecchiaia un’idea, diciamo, romantica. La vedevo come l’età della saggezza, influenzata com’ero dall’India e da certi ashram che avevo visitato, dove si ritiravano nei loro ultimi anni anche tanti capitani d’industria abbandonando ai figli i loro patrimoni. Mi sembrava un’immagine invidiabile di fine-vita: era la prova che cercavo di una profonda saggezza al culmine di una lunga esistenza – piena di ambizioni, successi, sicuramente anche perdite, magari grandi amori e grandi dolori – questo trovare la pace in sé stessi e in una povertà scelta e serena. Ma noi siamo occidentali e mi resi presto conto, già all’inizio del mio viaggio alla ricerca di vecchi che confermassero le mie illusioni, di essere ridicolmente ingenua. Quel che venne fuori, con mia grande malinconia, fu una serie di ritratti di un’umanità disperata e sola, fuori di testa o cosciente, ma ugualmente desolata, umiliata dalla propria impotenza, solitudine, senso di abbandono, un’umanità relegata in case di riposo anche molto ricche e belle, in cui però l’unico svago era giocare a carte o guardare la televisione tutto il giorno. Emersi dalla mia ricerca per scrivere il libro talmente sconcertata che mi trovai costretta a inventare di sana pianta un personaggio positivo (ne feci una donna) che aveva scelto di isolarsi in riva al mare coi suoi gatti, e le attribuii la citazione di una bellissima frase di Mauriac: «Questo sangue che affluisce ancora nella mia mano posata sul ginocchio, questo mare che sento battere dentro di me, questo afflusso e riflusso che non sono eterni, questo mondo così vicino a finire, esige un’attenzione di tutti gli istanti, di tutti questi ultimi istanti prima dell’ultimo: la vecchiaia è questo».
Più che mai adesso, che l’estremo limite si è avvicinato parecchio rispetto a quei miei quarant’anni, la considerazione di Mauriac mi sembra giusta e rasserenante. E la trovo curiosamente in sintonia persino rispetto a due punti di vista opposti sulla vecchiaia che si riscontrano nei recenti libri di due donne, Age Pride (Einaudi) di Lidia Ravera e L’età grande (Garzanti) di Gabriella Caramore. L’umore disperato di quei miei Vecchi è senz’altro più vicino alla visione di Caramore che indaga nei (pochi) piaceri e nei (molti) problemi dell’età con sguardo realistico e senza sconti consolatori, ma vedendovi comunque «la stagione che davvero – qualora sia consentita lucidità – può pensare sé stessa, risignificando tutta la vita». E però non è estraneo a Lidia Ravera, che pur concentrandosi soprattutto sulle conquiste cui si arriva con l’età e cercando cioè di guardare il bicchiere mezzo pieno, non si nasconde il contenuto pauroso dell’avvicinarsi della fine («per quanto tempo – si domanda – rimarrai, lì, in bilico fra l’esserci e il non esserci più?») E la sua forza è evitare la risposta possibile, evitare il conto alla rovescia.
Tempo di cui nelle spietate analisi di Caramore sulle «cose ultime e cose penultime» sentiamo chiaramente il tic-toc, ma nella consapevolezza costante che, pur se tutto è perduto o si sta perdendo, resta «la sfida di aver provato a vivere». Ed è su questa sfida che si concentra invece Ravera. Fa un po’ di conti: i vecchi oggi sono la maggioranza, in molti casi lucidi e ancora fisicamente validi. E su questo punta e rivendica: più attenzione, più rispetto, più energia. E, soprattutto rivolgendosi alle donne: più consapevolezza e sicurezza in sé stesse. E la cosa più interessante è forse lo spostamento dello sguardo su cui medita Ravera. Basta guardarsi dentro (o allo specchio che è quasi uguale in certi casi), basta egoismi. Altro che vecchi santoni sulle rive del Gange per elevarsi a divinità, o vecchiette e vecchietti che si lagnano del loro sfiorire e appassire; basta lotte perdenti contro rughe e cadute di capelli. Che lo sguardo sia diretto all’esterno, che si tenga conto degli altri, che si abbandonino pratiche egoiste. E cita la vecchia, affidabile Simone, Simone de Beauvoir, la prima forse a gettarci in faccia senza sconti l’orrore della vecchiaia in almeno due libri, La terza età e La cerimonia degli addii. Dice Ravera che dice Beauvoir: «La vita conserva un valore finché si dà valore a quella degli altri attraverso l’amore, l’amicizia, l’indignazione, la compassione». Ecco: l’«attenzione di tutti gli istanti» proposta da Mauriac e il dare valore alla vita degli altri come consiglia Simone sono allora il miglior viatico per diventare vecchi diversi, meno scoraggiati e infelici, di quelli che mi capitò di incontrare trent’anni fa.