Quando ci colpisce un fulmine (IlFoglio 16/2/24)

Quando ci colpisce un fulmine (IlFoglio 16/2/24)

I “fulminati” sono quelli che, centrati da un fulmine, ci rimettono le penne. I “folgorati” invece sono quelli che, investiti con meno violenza, sopravvivono. Ma non si sopravvive a un fulmine come se niente fosse. I colpiti riscontrano conseguenze, «chi a livello motorio, chi più neurologico. C’è chi ha perso la parola, chi la memoria…» Questo spiega Vera alla sorella Nora, in un romanzo della veronese Susanna Bissoli che s’intitola proprio I folgorati (Einaudi) e la spiegazione arriva verso la metà della storia, quando uno ha avuto tutto il tempo di domandarsene la ragione con varie risposte. Ma in realtà fin dalle prime pagine sappiamo che Vera ha un tumore per la seconda volta, subisce delle pratiche mediche vagamente dolorose, però non la fa lunga per niente. Insomma, è una folgorata cui poteva andare anche peggio.

Intorno a questa lieve ragione di letizia s’intesse la vicenda interpretata da un gruppetto di personaggi tutti indimenticabili, perché Bissoli ha la rara maestria di rendere profonda la leggerezza e riesce con pochi scambi di dialogo, qualche gesto o smorfia o alzata di spalle, senza descrivere niente, a rendere carnale l’inconsistente, perché è una bravissima scrittrice. Si era già fatta notare qualche anno fa con i racconti d’esordio Caterina sulla soglia, pubblicati con Terre di Mezzo, e ora ha scritto questo romanzo molto potente dietro un’apparenza minimalista. Una vera e propria trama non c’è, e questo va a suo onore, perché riuscire a scrivere un bel romanzo fregandosene di intrecci, plot e grandi sorprese finali, ma tenendo avvinto il lettore dall’inizio alla fine, è una dote rarissima. Soprattutto poi se si ha a che fare con un male incurabile, tema con il quale in tanti (forse dovrei dire tante) oggi amano misurarsi, strappando lacrime e disperazione a chi legge, mortificato e, ahimé, spesso molto annoiato.

Susanna Bissoii

Bissoli lacrime non ne strappa, ma sorrisi – se non risate – sì, molti. Grazie in particolare a un personaggio stupendo, quello di un padre bizzoso e grasso, capriccioso e tenero, vanesio e adorabile, che di nascosto ha scritto un libro su un altro sé ipotetico, così ipotetico che l’ha intitolato, Un uomo fortunato, consapevole di essere, lui, un vero sfigato. Ha fatto un mucchio di errori nella vita, ha perso la moglie, è rimasto solo e una delle sue figlie si è ammalata, anche lei dello stesso male. L’altra se la cava meglio, si direbbe, ma gli è meno cara probabilmente. Per inciso un’altra figura di padre (o la stessa, ma non importa) l’avevamo già trovata nel romanzo precedente, Le parole che cambiano tutto, sempre Terre di Mezzo. E “a mio padre” I folgorati è dedicato. Lo dico per la cronaca e per l’autobiografia, che non dispiace affatto, anzi dà forza alle parole a saperla usare.

Insomma, cosa succede in questo libro? Niente, e tutto: umori altalenanti, arcobaleni che ci si ferma a guardare mentre si sta andando in macchina, il manoscritto del padre che Vera s’incarica di copiare sul computer, un compagno (di Vera) che un po’ è all’altezza della situazione e un po’ no, una bambina (figlia di Nora) molto simpatica come sanno essere solo certi bambini intelligenti. E poi c’è il dialetto. Un magnifico, musicalissimo dialetto veronese che si accende ogni tanto soprattutto sulle labbra del padre, in espressioni fulminanti che non vengono tradotte (ottimo!) e che un po’ si capiscono un po’ no, ma non fa niente perché si capiscono lo stesso e, in questo libro di folgorati, non importa sapere tutto: se si ama come si deve o approssimativamente, se si è giusti o sbagliati, se si sopravvive o no. Conta lo scambio fra le persone, conta l’attimo, conta l’abbraccio immotivato e improvviso, conta “stare all’osso” (che in fondo è anche la poetica dell’autrice), conta la vita con le sue sublimi rivelazioni.

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