Generazione Hardy (Il Foglio 15/6/24)
È il 28 ottobre del 1962, i francesi guardano in televisione i risultati del referendum voluto da De Gaulle che deciderà l’elezione a suffragio universale del presidente della Repubblica. A interrompere l’attesa dello scrutinio passano spezzoni di trasmissioni musicali. Ed ecco, su una giostra piena di vento che solleva le gonne a ragazze dalle chiome cotonate, compare una parigina di diciotto anni, si chiama Françoise Hardy, capelli castani lisci lisci con una grande frangia, labbra carnose nel viso scavato, un’espressione malinconica e imbronciata. Canta un testo scritto da lei, Tous le garçons e le filles de mon âge. Si lamenta che i ragazzi e le ragazze della sua età “hanno tutti qualcuno d’amar”, se ne vanno mano nella mano e fanno progetti per un futuro insieme, e invece lei no, lei è “un’anima in pena” sempre sola, ed è tanto triste “restare da soli così”. La generazione yé-yé mostra il suo lato fragile su un ritmo di valzer che non ha nulla di pop, ma diventa subito un successo strepitoso, e presto rimbalzerà anche altrove e il pop lo reinventerà a modo suo. Del resto Françoise, che suona bene la chitarra, ha fatto buone scuole e conosce le lingue, canterà quel testo in tedesco, inglese, spagnolo e italiano con la sua voce dolce e innocentemente seduttiva che non teme di mostrarsi romantica e, almeno temporaneamente, sconfitta sul piano dei sentimenti. Perché la donna nuova, capace di scrollarsi di dosso vecchi stereotipi, è già nata e non si vergogna di avere ancora un piede nell’infanzia, un altro in una perenne adolescenza e la testa pronta a sognare tutti i sogni possibili, come insegnava Susan Sontag in Notes on “Camp” del 1964, e per camp intendeva “un tipo di sensibilità che si traduce in amore per l’innaturale, l’artificio, l’eccesso”.
L’apripista era stata BB. Simone de Beauvoir l’aveva detto nel ‘60 nel saggio Brigitte Bardot e la sindrome di Lolita, in cui analizzava il portato rivoluzionario e il naturale femminismo dell’attrice francese col suo rompere gli stereotipi e mostrarsi eccessiva, libera, persino un po’ crudele verso l’altro sesso. Françoise Hardy però è eccessiva in senso inverso, naturale, timida, sicuramente infantile e in più ha il fisico del futuro, alta e magra come una modella, spigolosa nel corpo e nel carattere, vagamente androgina. L’anno successivo a quella sua fortunata canzone, Mary Quant impone la minigonna e lei può sfoggiarla senza problemi su due gambe perfette, lunghe come pertiche, mentre scala le classifiche anche in Italia con un’altra indimenticabile canzone, Le temps de l’amour: “È l’età dell’amor, l’età degli amici e dell’avventura. Le ferite d’amor non durano che soltanto una sera…”, perché “a vent’anni si è il re di tutto il mondo”. Altri tempi, tempi in cui la giovinezza era sentita come un valore anche sociale, capace di scardinare gli schemi e imporre nuovi stili di vita. Il mondo sembrava davvero appartenere ai giovani lanciati verso il maggio del ’68, la sconfitta della mentalità borghese dei genitori, la guerra agli abiti firmati e alle convenzioni del benessere, bastano i jeans e una maglietta, si divide l’affitto in disordinatissime “comuni”, si viaggia gratis in autostop. La vita affettiva diventa un guazzabuglio di contraddizioni, ma non fa niente, perché l’importante è innamorarsi e innamorarsi e innamorarsi
Françoise non è sola a incarnare nello show-business la nuova femminilità che avanza, prove generali di femminismo anni ‘70: c’è la magrissima Twiggy, e la geniale Marianne Faithfull, a lungo vittima della droga ma sempre capace di reinventarsi, e la splendida indossatrice Jean Shrimpton, detta Gamberetto, che presto, coerente con i tempi, rinuncerà alla notorietà e alla ricchezza per ritirarsi col marito fotografo a gestire un suo albergo in Cornovaglia. Ed è ancora lì, incurante di invecchiare e coi capelli bianchi, splendida ultraottantenne. E la spensierata reginetta dello yé-yé, Sylvie Vartan, compagna del burrascoso Johnny Halliday, di origini bulgare e madre adottiva di una bambina bulgara. Se n’è andata l’anno scorso, invece, un’altra eroina del nuovo disordine amoroso, Jane Birkin, che dopo gli scandali della giovinezza aveva trovato una sua seria statura professionale come attrice e come cantante. Françoise Hardy di scandali non aveva bisogno. La centralità dell’amore nella vita e nelle canzoni in fondo era rassicurante per il pubblico. Piaceva agli uomini perché non li spaventava come altre protagoniste molto più erotiche, e alle donne perché sembrava a portata di mano, una compagna di scuola, facilmente imitabile con quella pettinatura sempre uguale, e più vicina alle esistenze di tutte per quell’essere costantemente sconfitta nel grande amore altalenante col collega Jacques Dutronc, rapporto durato per altro – e declinato in diverse modalità – la vita intera.
Aveva insomma l’aria della brava ragazza di buona famiglia, disinteressata a distruggere coppie altrui, introversa e ripiegata nei suoi personali dolori sentimentali. Anche se poi di lei s’innamoravano tanti protagonisti della musica pop e rock di quel periodo artistico e ribollente, da Bob Dylan a John Lennon, da Mick Jagger a David Bowie, allora giovanissimi. Si racconta che Dylan fosse talmente cotto – si era innamorato di una fotografia, non l’aveva ancora mai incontrata di persona – che si mise a scriverle lettere appassionate, senza mai spedirle. Lei era già esplosa con Tous les garçons, lui si arrabattava ancora suonando nei club. Si era trasferito dal Minnesota a New York e andava a lavorare in un baretto del Village dove aveva fatto il suo studio lasciando su un tavolino la macchina da scrivere. Scriveva appunti, poesie, testi di canzoni e le lettere a quella ragazza francese che lo aveva incantato con la sua malinconia e il suo broncio, perché non occorre conoscersi, quando si ama, non importa la distanza geografica, scriveva, perché lui aveva capito tutto lo stesso, tutto quello che lei aveva nel fondo segreto del cuore… Poi le accartocciava quelle pagine e le lasciava in giro. Per fortuna che il preveggente proprietario del bar raccoglieva ogni scartoffia e conservava… C’è una foto, che li vede insieme Bob e Françoise, era il 1966. Dylan suona a Parigi, Hardy corre al concerto, ma resta delusa: è talmente magro che sembra malato, e poi suona malissimo, rauco, incomprensibile. Il pubblico lo fischia. Lui si scoccia, lascia il palcoscenico prima di finire la serata e si ritira in camerino. Allora gli dicono che c’è Françoise Hardy in sala e così la manda a chiamare, la invita a una festa, ma lei capisce a stento l’inglese di quel ragazzo scontroso e stanno zitti tutto il tempo. Lo segue, sì, nella suite del suo albergo per ascoltare Just like a Woman e I Want You, ma non si sa chi fa il broncio più lungo, e non succede niente di intimo. Come si vede nella foto: lui guarda per terra, lei nel vuoto, disorientata. No, non va, e il grande amore finisce lì.
Anche perché Françoise è tipo da un’unica passione travolgente per tutta la vita, l’ha raccontato in un libro, L’amore folle, che fu tradotto da noi per Clichy ma ora è introvabile. Il suo uomo ideale si chiamava Jacques Dutronc, biondino, occhi chiarissimi, aria tormentata, appena più basso di lei. Ma ai tempi dell’incontro con Dylan non se n’è ancora innamorata, perché quando l‘ha conosciuto l’ha trovato “bruttino” e poi stava per sposare un altro, un fotografo, Jean-Marie Périer. Però dura poco, è un matrimonio lampo e, quando rincontra Dutronc, che intanto ha avuto successo con il rock psichedelico e il garage rock (più tardi diventerà un attore affermato) scocca la scintilla. È la fine del 1967 e mentre a Parigi scoppia il ‘68, loro vanno a viversi l’idillio in Corsica. Nel tempo, nel ’73, faranno un figlio, Thomas, oggi musicista e attore lui pure, e nell’81 si sposeranno in uno dei tanti andirivieni del rapporto, perché Dutronc è uno di quegli uomini inquieti che hanno bisogno di conferme seduttive e la tradisce in continuazione (famoso il flirt con Romy Schneider sul set del film L’importante è amare, del 1975). Ma, appunto, “l’importante è amare” e Françoise lo perdona e anche quando decidono di separarsi alla fine degli anni Ottanta, restano in contatto, più che in contatto, passano tutte le estati insieme e, nella malattia, un cancro che si ripresenta sotto varie forme fino a ucciderla, lui c’è, la chiama regolarmente dalla Corsica, dove si è radicato, si vedono e sono affettuosamente uno accanto all’altra e accanto al figlio. Sarà Thomas a dare l’annuncio, l’11 giugno scorso, della scomparsa di Françoise Hardy su Instagram: “Maman est partie…”
Ma che bambina era stata, che cosa aveva fatto di lei quel che poi è diventata? Veniva da un’infanzia complicata. Era nata in tempi di guerra, il 17 gennaio del ’44 da una donna di famiglia piccolo borghese che si chiamava Madeleine Hardy e aveva una storia con Pierre Dillard, benestante, ma già sposato e che poco si è occupato, anche economicamente, della sua seconda famiglia (dopo la primogenita, la coppia ha avuto un’altra figlia, Michèle). Leggenda vuole che nel giorno della nascita di Françoise, tremassero i vetri della clinica per un’allerta aerea e la futura cantante vedeva in questo la ragione lontana del suo “temperamento ansioso in modo esagerato”. Ma certo la situazione non aiutava a crescere serenamente. Le due bambine vivevano da povere in un appartamento di due stanze, insieme alla madre che intanto si era messa con un barone austriaco pure lui già sposato. Il padre le aveva iscritte a delle buone scuole, ma poi si dimenticava di pagare la retta e questo causava grande vergogna nelle figlie.
È per caso che Françoise trova la sua strada: un giorno ascolta alla radio cantanti che le piacciono, si fa regalare una chitarra, prende lezioni di musica, fa provini con Johnny Hallyday che funzionano. E poi esplode, giovanissima, in Francia e nel mondo. Sempre fedele a se stessa. Canta l’amore, la felicità di un incontro, la difficoltà di dirsi addio, senza essere banale, quieta e distante dal proprio strepitoso successo. Presto abbandona i faticosissimi concerti. Fonda sue case discografiche, dice più volte addio al canto, ma torna sempre a cantare. E intanto coltiva altri interessi, la psicologia, l’astrologia, per capire se stessa prima di tutto, per andare a fondo del mistero che siamo. È amica di altri artisti, Jane Birkin in particolare, Serge Gainsburg, George Moustaki.
E intanto scrive su ritmi lenti o rock: “Ci sto, per il cinema, ci sto per andare a ballar, ma non contar su me per venire da te”, oppure: “Appena tu vieni da me a sussurrar mille parole che capir non saprò mai, è all’amor che fai pensar, a quell’amor che io sognai…”, e canta anche Il ragazzo della via Gluck di Celentano, o grida a qualcuno che le preferisce un’altra: “E già, io mi annoio con gli altri, però, sola cosa farei, tu sei con lei. Ma, se mi vuoi, sono tua un’altra volta. Caro guardami ed ascolta: io ti amo ti amo ti amo!”
Poi, nel 2004, cominciano i problemi di salute, quel cancro subdolo che la tormenterà, per vent’anni, perché quando sembra superato, torna e torna sotto varie forme. Allora scrive Le large (Prendere il largo, 2018) in puro stile Hardy: “Alla fine, quando prenderò il largo, tutto andrà bene, tutto sarà lontano, dammi la mano, non vorrò altro che te”. E nel video si vede un bambino che accarezza su uno schermo il viso di Françoise giovane con la frangia e i capelli lisci e Françoise quasi ottantenne coi capelli bianchi. Sempre unica, speciale, bellissima. Qualcuno aveva sostenuto che era la donna più bella del mondo: lei si era semplicemente messa a ridere. Perché come aveva scritto in un’altra canzone, del 1962, Io capirti vorrei non voleva essere la più bella, ma non essere dimenticata: «Tutto ciò che vorrei è restare per te come un ricordo che mai, mai più potrai scordar”. E probabilmente ci è riuscita.