OTTOBRE, un racconto per il semestrale APPENNINO (gennaio-luglio 2017)
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Andai nella stagione delle castagne. Gli avevo detto che cercavo un posto tranquillo per scrivere, se mi poteva ospitare. Disse che era felice di ospitarmi, che anche lui si ritirava a scrivere sulla montagna. Disse montagna, ma era solo una collina, seicento metri o giù di lì. Antonio, morta la nonna, aveva ereditato quella casa. Era successo all’inizio dell’estate e ne era ancora tutto contento. Io dovevo consegnare un libro entro la primavera, non potevo permettermi di bucare di nuovo la consegna, ché facevo saltare per la terza volta il piano editoriale. Avevo bisogno di un posto tranquillo, senza distrazioni, senza cinema, senza tv, senza che qualcuno saltasse su a proporti qualcosa all’ultimo momento. E mi disse che sì, potevo andare, se non avevo paura a restarci anche da sola, ché lui faceva un po’ su e giù con la città. Purtroppo non poteva starci proprio tutto il tempo, l’ex moglie si era ammalata e doveva pensarci lui al figlio, che stava attraversando un momento delicato, l’adolescenza insomma, era meglio tenerlo d’occhio. Niente di grave la moglie, un piccolo intervento sempre rimandato. Ma insomma, è così con le ex mogli, quando c’hai figli insieme.
E così sono andata che era la fine di ottobre. Io a Cerreto ero stata da piccola. Mio padre era fissato con le terme e ci portava sempre nei posti con le terme. Ma era un ricordo vago, più che altro il suono del nome che mi era rimasto dentro le orecchie. Poi Antonio non stava in paese, ma fuori, un po’ isolato. Il posto era proprio bello, mi aveva mandato le fotografie. Teneva vicino al fuoco un cestino pieno di castagne e la padella coi buchi. Allora subito, la prima sera, ci siamo cotti le castagne nel camino, ed erano squisite. Lui mi raccontava che l’Appennino si era allargato di 3 centimetri dopo il terremoto di fine agosto ad Amatrice e che la Piana di Castelluccio s’era abbassata addirittura di 18 centimetri. Faceva la misura con l’indice e il pollice della mano. «Ti rendi conto?» diceva. Dissi che io un po’ l’avevo sentito il terremoto, e anche lui l’aveva sentito, forte l’aveva sentito. Dissi: «Mi piacciono le castagne. Queste sono buonissime. Ci senti dentro una fragranza speciale, un profumo che diventa sapore. E’ strano come il profumo sia un sapore, vero? Uno il profumo di un cibo lo sente più precisamente dentro il sapore». Così abbiamo smesso di parlare del terremoto. Avevamo amici ad Arquata che erano stati colpiti. Non volevo che ci rattristassimo.
Secondo me gli scrittori sono anche dei gran camminatori. Non possono non esserlo. Quando sei stato tre, quattro ore seduto a scrivere, ti fa male tutto. Devi interrompere. Devi alzarti e andare a camminare. Anche sotto la pioggia. Devi compensare. Le gambe ti impongono di alzarti, vogliono muoversi. Se non lo faccio rischio la sciatica, ogni volta che mi viene la fretta di finire un libro e non mi alzerei mai dal computer. E la schiena, e le spalle, hanno bisogno di cambiare posizione, di rilassarsi. E il collo. Non si sa quanto fatichi il collo quando si scrive. Dopo pranzo, il giorno dopo, andammo a camminare. Antonio voleva indicarmi certi sentieri dentro i boschi lì intorno. Avevamo lavorato la mattina intera. C’era una bella luce, c’era il sole. Dopo le 18 poi veniva buio quasi di colpo. Ma erano appena le due e mezza.
E andammo. E a ogni passo calpestavamo i ricci delle castagne, e con la punta del piede facevamo schizzare fuori il frutto nascosto. Raccoglievamo solo quelle più grosse e più lucide ficcandole nelle tasche e negli zainetti. Gli raccontai che le castagne mi ricordavano la mia infanzia a Piacenza. «A Piacenza? Le castagne?»
«Ma sì, di che ti stupisci? E’ una città fredda Piacenza, quando ero piccola lo era di più. Perché non dovrebbero esserci i castagni?» Ce n’erano due grandi nel giardino di casa, un giardino comune a diversi caseggiati, ma non proprio caseggiati, veramente erano della casette di uno o due piani. Non eravamo in tanti in quel condominio. E ci conoscevamo tutti.
«Ah» disse Antonio.
E insomma, gli raccontavo che io m’incantavo a guardare in terra i ricci semiaperti delle castagne, ma non avevo il coraggio di raccoglierli perché mi veniva paura di pungermi. Ero una bimbetta di quattro, cinque anni e avevo una certa ripugnanza per il cibo, perciò le castagne non m’interessavano come cibo. M’interessava il loro scrigno, il fatto che fossero un frutto così protetto e segreto e chissà come era venuto in testa agli uomini di mangiarsele. Proprio non capivo, da piccola, come era stato possibile che a uno venisse in mente di tirare fuori le castagne dal guscio e poi d’intagliarle e metterle sul fuoco e mangiarsele.
«Proprio per questo» disse Antonio. «Per provare a sentirne il sapore. Perché una cosa che ti mette così alla prova, ti viene subito voglia di mangiartela».
Non mi piacque questa spiegazione, e non mi piaceva quando mi dicevano qualcosa del genere da piccola. Io le castagne amavo guardarle occhieggiare nel loro guscio là per terra. Mi piaceva il tonfo che facevano cadendo dall’albero sul tappeto di foglie, le foglie che ora calpestavamo sul sentiero. E una volta che me le avevano messe in bocca, subito le avevo sputate, come sputavo tutto. Non mi piaceva mai niente da mangiare, da piccola, niente.
«Meno male che ora sì» disse Antonio. A pranzo c’eravamo cucinati un risotto alle castagne e mascarpone da leccarsi i baffi e adesso, ripensandoci, facevamo ancora degli uhm uhm di piacere.
Mi sono messa a ridere: «Sono cambiata parecchio».
Intanto eravamo usciti dal bosco e si vedevano le prime case di un altro borgo, o frazione di borgo. C’era una vecchia chiesetta, di quelle che subito ti piace entrarci dentro e, una volta dentro, ti metti a camminare sulle piastrelle malandate, a respirare gli scricchiolii dei banchi di legno, a vedere in fondo il piccolo altare quieto con i suoi merletti e le sue candele. Subito ti viene la voglia di inginocchiarti e confessare anche i peccati che non hai fatto. Ti viene uno struggimento di essere accolto, capito, amato, preso fra le braccia come il Cristo dalla Madonna ai piedi della croce. Ma non gliel’ho detto questo a Antonio, mi è sembrato un pensiero stupido, pensato già innumerevoli volte.
Siamo tornati indietro, per un sentiero diverso che correva quasi parallelo a quello che avevamo fatto all’andata, ma più sinuoso e nascosto, e c’erano ponticelli che attraversavano un torrente di poca acqua tumultuosa e c’erano baite abbandonate e cadenti che sembravano essere cresciute come piante dal monte e io sognavo di comprarne una per due soldi e restaurarla e andarci a vivere per sempre. Sbucammo in un’ampia radura dove incontrammo un mulo nero e un cavallo bianco che brucavano l’erba insieme, fraternamente, i musi vicini, compagni. E poi incontrammo un gruppetto di capre dentro un recinto ampio che stavano accovacciate fra i faggi, ma vedendoci si erano alzate, o curiose o in allarme. Credo fossero capre, col pelo liscio e lungo, ma di un tipo che non avevo mai visto. Magari erano pecore, o forse c’erano sia le capre sia le pecore. E una da dietro una quercia si era sporta a guardarci ed era rimasta immobile col suo muso triangolare nero e bianco e le orecchie lunghe.
Prendemmo un altro sentiero, dentro un altro bosco, un sentiero largo questa volta che volendo ci potevano passare anche le macchine. Ma ne passò una soltanto. C’era un’edicola che custodiva la madonna più tenera che avessimo mai visto ché, evidentemente, le si era rotta la testa di terracotta e gliel’avevano sostituita con un tondino di legno troppo grande e la faccia ce l’aveva dipinta su alla meno peggio e le era venuta la bocca storta e un grande naso fra gli occhi chiusi. Non ho resistito e l’ho fotografata col cellulare e Antonio si è arrabbiato che mi ero portata il cellulare, perché lui non lo sopporta il cellulare per andare nel bosco, e se fai le foto, poi.
Ma si è distratto subito, e ha lasciato perdere. Di nuovo eravamo sbucati in mezzo a un gruppo di case e c’era una scritta gigante che ci faceva ridere. Qualcuno aveva istoriato il muretto di una villa, accanto al cancello, così: «Non avere fretta, Ronaldo ti aspetta»
«Ma che nome è Ronaldo? Forse voleva scrivere Rolando» ho detto io.
«Non sai niente di calcio tu, eh? Ronaldinho non ti dice niente? Ronaldo de Assis Moreira è un giocatore brasiliano famosissimo, più bravo di Maradona e di Pelè, li conosci?»
«Maradona e Pelè sì, li conosco. Forse, però, ora che ci penso, qualcosa mi dice pure Ronaldinho. Ma che significa questa scritta?»
«Sarà un innamorato che casualmente si chiama Ronaldo. Lei lo ha fatto aspettare fuori al freddo, perché non la finiva più di prepararsi, e lui ha avuto tutto il tempo d’imbrattare il muro».
«Non mi convince. Però il muro non è imbrattato, vedi? Non ha dipinto direttamente sul muro, ma su un telo di cellofan».
«Ah, bene. E’ un innamorato educato».
Tornammo a casa e ci rimettemmo a scrivere, ognuno nella sua stanza e io continuavo a pensare a Ronaldo, Rinaldo, Rolando, tutte le declinazioni di quel nome che mi aveva così colpito. A volte uno viene colpito dalle cose più strane, e non te ne spieghi la ragione. Però con quel pensiero in testa non mi riusciva di scrivere. E allora infilai un cd nel computer per ascoltare un po’ di musica. Era appena partita la quarta sinfonia di Brahms in mi minore, che mi piace tanto e la ascolto tutti i momenti, quando mi parve di sentire sbattere furiosamente le porte al piano di sotto e sentivo gridare. Una voce femminile.
Mi sono affacciata alla ringhiera delle scale. Saliva fino a me la voce arrabbiata di una donna e quella mite di Antonio che cercava di giustificarsi, ma non capivo di che. Poi ho capito. Era una scenata di gelosia. Era la nuova fidanzata di Antonio, che non conoscevo, ma me ne aveva parlato. Stavano insieme da qualche mese. Mi era sembrato contento di starci. Me ne tornai nella mia stanza e non sapevo cosa dovevo fare. Quei due giù continuavano a discutere. Poi improvvisamente non ho sentito più niente. Si erano chiusi in camera da letto.
Non so se ho preso la decisione giusta, ma ho preparato subito il bagaglio, ho caricato la macchina coi miei libri, il computer e tutto, e me ne sono andata. Che se poi per le scale, magari, e più tardi a cena, c’incontravamo con la fidanzata di Antonio, si sarebbe sentita a disagio per la piazzata che aveva fatto. Oppure si doveva fare tutti finta di niente, e a me viene sempre male fare finta di niente. Così sono ripartita, con le castagne che scricchiolavano sotto le ruote dell’auto, e ho guardato di nuovo la casa che mi piaceva tanto, e la finestra del mio abbaino, e la panca in giardino dove era bello sedersi al sole di mattina, accanto ai cespugli di ortensie, e il gatto che saltellava inseguendo animaletti reali o immaginari nell’erba.
Era stato bello. Ora quella casa non esiste più. E’ venuta giù col terremoto di fine ottobre. Antonio e la fidanzata, per fortuna, si erano messi in salvo in mezzo alla strada. E io, io ero ripartita già da due giorni.