Caso Ferrante (L’Espresso, 18 febbraio 2018)
«Lui mi inseguì con la voce, che modificò da cortese in un sibilo incalzante e sempre più sguaiato. Fui raggiunta da un fiotto di oscenità in dialetto, un morbido rivolo di suoni che coinvolse in un frullato di seme, saliva, feci, orina, dentro orefizi di ogni genere, me, le mie sorelle, mia madre. Mi girai di scatto, tanto più gli insulti erano immotivati»: sono andata a ripescare questa frase che avevo sottolineato nelle prime pagine de L’amore molesto di Elena Ferrante. Dico subito che non mi conto fra i fan della scrittrice e che i misteri non mi piacciono, ma di fronte al suo caso tanto dibattuto ho sempre pensato che, sia pure nelle cadute vertiginose, nelle ineguaglianze e negli sbandamenti (davvero molesti) di questa narrativa, si acquattasse uno scrittore vero. Intendo qualcuno, grande o piccolo scrittore non importa, che ha una profonda necessità di dire, qualcuno le cui parole affondano in un nucleo di verità, qualcuno che scrive perché – malgrado tutto – non può non farlo.
Sì, il segreto di questa necessità, l’ho individuato per la prima volta in quelle frasi dell’Amore molesto. Non ho letto tutto della Ferrante, ma l’ho ritrovato, potentissimo, nel primo volume della quadrilogia (il migliore) e in tutta la storia di Lina e Lenù, portata avanti, purtroppo, secondo me, per altri tre volumi, troppi, tradendo lo scrittore vero in nome probabilmente del business. Cosa c’è insomma in quel passo che mi risuona così potente?
C’è qualcosa che ha ferito profondamente la mia infanzia, c’è qualcosa di vero e concreto e, per me, intollerabile: la ferocia inaudita delle relazioni, che si trasforma in violenza delle parole, tipica della società napoletana. L’“amicizia” fra quelle due donne, Lina e Lenù, raccontata nell’Amica geniale è tutta intrisa di questa violenza. Ed è qualcosa che, per quanto ne so, non era stata detta prima con altrettanta naturalezza e altrettanta forza. Quando lessi quel passo dell’Amore molesto, ho ritrovato in poche righe il senso, o piuttosto il nonsenso, di quanto avevo patito da piccola: l’irragionevolezza di adulti che da gentili e sorridenti diventavano mostri, produttori di parole irripetibili. L’insulto immotivato legato a gesti volgari e a un dialetto duro e feroce. Sono nata a Piacenza, da padre di origini umbre, ma la famiglia di mia madre era campana. Vedevamo poco questa parte della famiglia, giusto a Natale e in qualche altra rara occasione. Ma non c’è stato Natale che, all’improvviso, non si guastasse, che per un motivo futile non assumesse le proporzioni della tragedia: parole oscene, insulti fra fratelli e sorelle, esplosioni di pianto. Il tutto, lo capisco oggi, di una sproporzione che rivela la “messa in scena” della furia e della lite, il teatro insomma. Ma da piccola questo aspetto, diciamo artistico della napoletaneità, non potevo decifrarlo.
Insomma, quando ho letto sul numero scorso dell’Espresso, l’articolo di Paolo Di Paolo, col quale in genere mi trovo d’accordo, ho pensato che aveva ragione in tutto: inutile cercare le ragioni della letteratura nel successo planetario di Ferrante e c’è effettivamente qualcosa di stucchevole in tutto questo schierarsi dell’ambiente culturale, degli scrittori soprattutto, pro Ferrante, quasi fosse una vittima dei giornalisti scatenati a cercarne la vera identità fino a frugare nei conti bancari (che altro dovrebbe fare un giornalista, se non sciogliere i “casi”?) E sono d’accordo che non ci sia nulla d’innovativo nella sua narrativa (ma questo è un andazzo generale), semmai un’eco morantiana che sfugge a chi non ha letto Morante e dunque grida a un ben più facile “miracolo”. Non credo, però, che si possa liquidare “il caso Ferrante” negandole uno status di scrittore, quasi fosse soltanto l’ibrido costituito da un pool di furbacchioni che hanno creato la gallina dalle uova d’oro.
Forse all’inizio c’è stato un gioco fra amici della casa editrice e/o: inventiamo una scrittrice così e così. O forse c’è stata la voglia di uno scrittore maschio di provare a fare la scrittrice femmina facendosi magari aiutare dalla moglie a raccontare cosa si prova a sentirsi scendere le mestruazioni fra le cosce, e cose così. Forse poi, quando il gioco s’è fatto grosso, è intervenuto qualcun altro, vai a sapere: allunghiamo il brodo di questa storia, spingiamo l’acceleratore sul mistero. E tutto il mondo si è messo a giocare. Si è messo a sognare una scrittrice meravigliosa e fantasmatica, e non vuole essere svegliato dal sogno a nessun costo. Che male c’è? A volte penso che il capolavoro di Elena Ferrante sia proprio questo, questo grande gioco che ha creato: con tutto l’orrore in cui siamo immersi, non è fantastico avere una fiaba in cui rifugiarsi?