Fenomenologia della ninfetta (Il Foglio, 29/1/11)
Che cos’è che distingue la ninfetta dalle sue coetanee? Non la bellezza, secondo Vladimir Nabokov che di questa nuova “maschera”, questa apparizione letteraria con nome e cognome, Dolores Haze, detta Lolita, poi trasfusa al cinema e nella società, questa potente rappresentazione della seduzione minorile, è il dotto inventore. Non la bellezza, e nemmeno l’età, perché – se no – ogni fanciulla fra i nove e i quattordici anni avrebbe diritto a entrare nel gruppo e allora «noi iniziati, noi viandanti solitari, noi ninfolettici saremmo impazziti da tempo». A dettarne la pericolosa malia è invece: «la grazia arcana, il fascino elusivo, mutevole, insidioso e straziante». E per andare nel dettaglio: «il profilo impercettibilmente felino di uno zigomo, la snellezza di una gamba appena venata di lanugine» e, va da sé, l’assoluta indifferenza della stessa verso la propria essenza divina, l’essere «ignara del proprio fantastico potere», un potere che non si esercita tanto sui coetanei, quanto su chi ha un divario di diversi anni, «mai meno di dieci, direi; generalmente trenta o quaranta, e in alcuni casi conosciuti addirittura novanta». Naturalmente il limite superiore dell’età della ninfetta può, seguendo le descrizioni della Legge, estendersi fino al confine dei fatidici diciotto anni, quando una fanciulla passa d’un balzo dall’adolescenza all’opaco mondo degli adulti e si suppone che i suoi fianchi s’arrotondino, i polpacci ispessiscano, i seni crescano, i pelucci teneri e trasparenti, divenuti tosti e bruni, soccombano sotto lo strappo brutale delle cerette.
Il precedente della ninfetta, lo dice la parola stessa, è naturalmente la ninfa. Almeno stando alla parola, anche se “ninfa” nel mondo dell’entomologo Nabokov è, soprattutto, il periodo brevissimo di trasformazione in cui, dall’uovo, la futura farfalla passa alla sua forma pre-adulta (“subimmagine” in termini tecnici) e quindi adulta (“immagine”) per portare nella natura la bellezza impalpabile del suo effimero sfarfallio. Per uno scrittore scienziato, qual era Nabokov, che passava metà della sua esistenza a rincorrere e catalogare questi insetti fuggevoli, dovette essere fatale trasformare l’impressionante fragilità epifanica delle farfalle in durevole figura letteraria.
E dunque Lolita e le sue amiche che prima e dopo di lei hanno fatto capolino nelle pagine dei romanzi è, almeno per l’immaginifico Vladimir, più l’incarnazione della brillante e brevissima apparizione di un insetto raro e meraviglioso nel suo farsi che la forma fanciulla di una donna in carne e ossa. A quanto risulta, poi, a lui le donne nella realtà piacevano ben provviste dei normali attributi della piena femminilità e fu fedele a un matrimonio di ferro e a una donna, Vèra Slonim, di fine intelletto e di elegante matura bellezza.
Lontana invece dal cuore dello scrittore russo era proprio la ninfa in senso classico, quell’idea algida, intangibile, distante di vergine ignara, incapace delle multiformi perversità e più o meno consapevoli seduzioni bambine che manderanno in visibilio nelle scultoree pagine del romanzo Lolita l’incontenibile Humbert Humbert. La ninfa dell’antichità, infatti, non è mai ninfetta. Intanto non ne ha i caratteri deperibili che rendono tanto struggenti le sue capricciose apparizioni e infinite grazie. La ninfa è, invece, una creatura tutt’altro che effimera, una semidivinità perché figlia di dei e, se non ha il dono di vivere in eterno, può contare comunque su una vita lunga e immobile nella sua bellezza pre-adulta. In secondo luogo è una creatura felice. Vicina alle acque, ai boschi, agli animali, si muove in un’idillico rapporto con la natura, canta e danza in continuazione, lieve, disincarnata, impeccabile nella sua nudità freddina o nelle successive rappresentazioni pittoriche (scavalliamo con disinvultura un profluvio di secoli) che la misero al centro dell’ispirazione dei preraffaelliti e di quel maestro assoluto che fu William Waterhouse a cui poi si sarebbe ispirato banalizzandolo il fotografo David Hamilton. Coi loro fiori nei capelli, i vestiti leggerissimi e floreali, diretta filiazione della Primavera botticelliana, le ninfe classiche nelle loro derive ottocentesche evocano non perversione e infanzia, ma leggiadria ed eventualmente accoppiamenti sereni e bucolici, o – al contrario – orrori e stupri, ma mai quella sottile complicità col suo “carnefice” che caratterizza la ninfetta. Perché la ninfetta, al contrario della ninfa, sa poco o nulla di sé e del suo desiderio, è bambina che gioca alla bambola e insieme pre-donna travolta da un eros che non conosce e nemmeno sospetta nella sua forza, sempre tentata di correre nella sua stanza e riprendere lo stropicciato quaderno dei compiti, ma insieme goffamente in competizione con l’immagine adulta incarnata prima fra tutte dalla madre, lesta a entrarle nei tacchi alti e consumarne il rossetto. La ninfetta è, in qualche modo, trans, creatura di passaggio e del passaggio, incerta nella sua identità, terribilmente provocante per questo suo stato di bilico, fra l’infanzia e l’età adulta. Essere demoniaco suo malgrado, nevrotica inevitabilmente. Di conseguenza crudele, prima di tutto con se stessa.
La ninfa no, la ninfa è buona, amorevole, protettiva e materna pur nella sua severa grazia virginale. E infatti ci sono le ninfe dei campi e dei burroni, quelle che proteggono i viandanti e quelle delle montagne. Le Oceanine e le Driadi, che vivevano ognuna in una quercia. Le Cure, che proteggevano i neonati, le Celesti e le pedestri e persino le Baccanti, perché non si trovassero senza santi protettori anche i trasgressivi di ogni genere e sesso. La ninfetta, ahimé, non sa proteggere nemmeno il suo gatto, perché capace di lasciarlo senza cibo né acqua, chiuso in uno stanzino dove distrattamente l’ha nascosto e dimenticato, presa da un altro gioco o distratta di colpo dalla telefonata di un’amichetta, dall’apparizione televisiva del suo cantante del cuore. Inafferrabile e inaffidabile. Come abbiamo visto, la ninfetta può non essere particolarmente bella come invece una ninfa è costretta a essere previa la cacciata immediata dal suo sub-olimpo. La ninfetta magari porta l’apparecchio per correggere i denti, è sciatta e puzza un po’ di sudore, perché non ama molto l’acqua e il sapone, e dal punto di vista psicologico, lungi dal dare qualsivoglia garanzia affettiva, non s’innamora, ma prende le cotte. Sempre Nabokov docet: Lolita s’invaghisce di Humbert perché lui somiglia «a non so più quale attore o cantante confidenziale» per cui lei stravede al momento. E va da sé che, una volta tolta di mezzo l’ingombrante figura della madre, («soluzione molto diluita di Marlene Dietrich») e consegnata armi e bagagli all’improbabile tutore-innamorato tanto più grande di lei, ora che la madre non è più parte del gioco competitivo femminile (della serie: chi è la più importante per lui), sottratta al suo mondo di campeggi, amici, palla prigioniera e canzonette, ecco che la cotta svanisce come neve al sole, ecco che Humbert Humbert prende i giusti contorni del maschio oppressore, violento e maiale. Straordinario ribaltamento morale di un romanzo nato da una fissazione della pubertà, che lo stesso Nabokov rivela, sia nella primissima parte di Lolita, là dove “inventa” il personaggio di Annabel, una specie di pre-Lolita, suo imprintig, un amore coetaneo, preadolescenti entrambi, Humbert e Annabel, che malauguratamente muore in modo tragico (ma provvidenziale per la futura creazione di Lolita) «di tifo a Corfù» sottraendosi al normale destino di fidanzata e forse di moglie del suo giovane innamorato. Sia nella prodigiosa ricostruzione autobiografica del suo passato, luminoso e raro racconto della sua vita che contravviene alla proverbiale discrezione nabokoviana, quel Parla, ricordo, ora riproposto dalla Adelphi, dove ritroviamo il modello di Annabel come di Dolores-Lolita-Lo.
Si tratta di Tamara. Tamara e le farfalle: le due passioni fissazioni dell’autore da piccolo. Ha sedici anni Nabokov, e lei quindici, quando s’incontrano nella campagna a sud di San Pietroburgo. E’ il 1915. Sullo sfondo l’eco di una guerra interminabile e vicini i tamburi della rivoluzione che avrebbe travolto il suo destino, scacciandolo all’estero, orfano di un padre eroe, e improvvisamente povero dopo essere cresciuto nella bambagia della più viziata aristocrazia. Tamara è piccola e grassottella, ma comunque ninfettissima (anche se né lui né lei possono dare senso a un simile termine per il momento). Quando due anni dopo s’incontrano per caso un’ultima volta su un treno di periferia, e Tamara morde a duri colpi di denti una tavoletta di cioccolata e intanto racconta, con la indomabile superficialità delle ninfette, dell’ufficio in cui lavora adesso, il giovane futuro scrittore è pieno di un presago sgomento.
E con Tamara compare accanto alla ninfetta un oggetto da lei inseparabile, la bicicletta, almeno tale l’ha reso Marcel Proust, quando nel secondo volume della Recherche, gli si concretizza davanti Albertine che spinge proprio una bicicletta confusa in un indimenticabile sciame di amiche sportive. Per Proust le ninfette sono «fanciulle in fiore», le vede tutte insieme e inizialmente non riesce a distinguere una dall’altra, ha la sensazione della «traslazione continua di una bellezza fluida, collettiva e mobile». Poi mette a fuoco uno sguardo, quello di Albertine, che ha le ombre fuggevoli delle ninfette nabokoviane di là da venire, uno sguardo in cui coglie «i suoi desideri, le sue simpatie, le sue repulsioni, la sua oscura e incessante volontà» e diventa subito cosciente che «non avrei posseduto quella giovane ciclista, se non fossi riuscito a possedere anche quello che c’era nei suoi occhi». Illusione delle illusioni: si può forse possedere una farfalla? Albertine non è più bella delle altre, ma ha quello sguardo insondabile e insolente, lo sguardo involontariamente perverso delle bambine catapultate nell’adolescenza direttamente da un sogno bagnato notturno.
Non stanno tutte sempre dormendo, forse sognando – e forse addirittura fingono di farlo – le giovanissime protagoniste di un formidabile romanzo di Kawabata, La casa delle belle addormentate? Si svolge in un anomalo bordello dove jeunes filles en fleur giacciono nude a letto assopite da un potente narcotico. Ai vecchi frequentatori è permesso solo giacere con loro, guardarle, annusarle. Il sessantasettenne Eguchi è un cliente tormentato cui la situazione accende fantasie spericolate e un profondo senso di vergogna. «Ai vecchi la morte, ai giovani l’amore; di morte una sola, di amori tanti» si sorprende a pensare. Anche se alla fine a morire inaspettatamente sarà una delle ragazze, non lui. Le pericolose strade delle ninfette che adescano e portano per mano il vecchio innamorato proprio là da dove credeva di essere fuggito: sull’orlo della fine, nel limite invalicabile della vertiginosa differenza di età, dentro al ghigno beffardo della giovinezza sciupata dal lavorio del tempo.
Da Kawabata a Philip Roth il passo è breve a questo punto. Roth non ama particolarmente le ninfette, il suo è un eros a tutto tondo, carnalissimo e variegato, anche se in genere l’oggetto femminile del desiderio è più giovane del maschio desiderante (ma non necessariamente impubere). Come in L’animale morente dove si celebra la profonda ingiustizia della morte precoce della ragazza rispetto all’attempato professore che l’aveva lasciata temendo lo scacco della propria vecchiaia imminente.
Ed è ancora la morte, inspiegabile, bizzarra, sanguinaria, quella che si danno misteriosamente le cinque sorelle Lisbon recente apparizione di ninfette nel romanzo Le vergini suicide di Jeffrey Eugenides, cinquantenne scrittore americano, forse il più degno erede contemporaneo di Nabokov. Dal libro ha tratto un film inquietante Sofia Coppola, Il giardino delle vergini suicide. Qui il tema non è più la differenza di età o la seduzione equivoca sparsa intorno a sè da queste cinque inafferrabili sorelle, ma il disagio della bellezza, della giovinezza, a stare al mondo, un mondo di cui non sanno affrontare la misura, o la dismisura, in cui non hanno un ruolo che corrisponda al loro intimo, confuso sentire, in cui non si riconoscono, perché non c’è al mondo un’immagine confortevole su cui una ragazza si possa comodamente e allegramente costruire.
Disagio che si è a mio parere accentuato nella società in cui viviamo attualmente, distante dalla prima edizione del libro di Eugenides due decenni scarsi (è del 1993). Da dove vengono fuori sennò tante anoressiche o, viceversa, tante ragazzine subito scontente di sé che aspettano di compiere diciotto anni solo per potersi rifare lo zigomo, il seno, il naso, il taglio degli occhi? Al di là dell’allupata aria di bordello che aleggia al momento su vari casi Ruby e Noemi, la ninfetta sembra ora coincidere con una scaltra affarista molto abile a gestire la sua bellezza giocata fra le immagini della bambina cresciutella e della ballerina che fa danzare il ventre, determinata e spietata nell’approfittarsi del vecchio danaroso frettolosamente confuso con un qualche generoso papi (i maldestri tentativi di farne la vittima dei papi crollano miseramente di fronte all’innegabile concretissima realtà delle cose e delle persone). Insomma non sono più tempi di ragazze traviate, di povere fanciulle senza scelta, o di anarchiche lolite che un giorno seducono ammiccando triviali e quello dopo preferiscono giocare a Trivial Pursuit. Certo a creare le icone dell’immaginario contemporaneo s’incaricano oggi i media e non i grandi scrittori, e questo una differenza la fa. Un’enorme differenza, che potremo una volta di più annettere alla decadenza dei tempi e dei costumi senza con questo spiegare niente.
Ma perché poi una giovanissima dovrebbe essere più saggia dei suoi genitori e degli adulti in genere che la strumentalizzano persino senza la minima fantasia? Quando apriamo una rivista femminile e troviamo un preoccupato articolo sull’anoressia e dopo poche pagine l’ennesima proposta di modelle bambine e anoressiche come simbolo di ineguagliabile bellezza, che idea di sé dovrebbe farsi una fanciullina in fiore? E’ di questi giorni la notizia di un servizio fotografico di moda piuttosto cafone apparso sull’edizione francese di Vogue con bambine truccate e vestite da grandi, in pose sexy. La direttrice, Carine Roitfield, mito della Moda internazionale, regina del gusto e dello charme occidentale, è stata rimossa dal suo incarico, ma solo perché un potente investitore ha minacciato di ritirare dal giornale la pubblicità, e chissà dove andrà a far danno al prossimo giro. Nessuno, intanto, si preoccupa di rimuovere i continui messaggi pedofili che dagli stilisti, alle passerelle, alla pubblicità, appunto, invadono e alimentano il nostro immaginario sempre più greve, confuso e cheap.
«Bisogna conoscere interamente i propri sogni» diceva Proust «per non soffrirne più». E: «Se un po’ di sogno è pericoloso, quel che ce ne guarisce non è il sognar meno, ma di più, è tutto il sogno». L’impressione oggi è che si sia imposta una narcotizzazione profonda, una completa incapacità di sognare, in parte e in tutto, individualmente e socialmente. L’incapacità degli scrittori di creare icone potentemente rappresentative della realtà e della realtà di staccarsi dalla costante conta dei possibili risultati per elevarsi in una dimensione immaginaria di sé capace di creare qualcosa di nuovo e travolgente. I sogni sono pericolosi, si dirà. Abbiamo visto dove ci hanno portato i grandi sogni sociali di riscatto o anche quelli di pacata fiducia nel progresso dell’umanità. A orrori e, nella migliore delle ipotesi, al vuoto e all’indifferenza generale in cui tutti più o meno brancoliamo.
Forse è perché abbiamo sempre sognato a metà, e oggi addirittura meno di metà, senza il coraggio di sognare tutto il sogno? In questo mondo di escort che non sanno essere né Lolite né Lulù, e di Humbert Humbert da strapazzo, vi consegno la domanda e corro a farmi una bella dormita. Per riuscire a sognare, spero.