Nuovo libro di Manganelli e altro (Il Foglio, 26/3/11)
«Né mite né generico» è lo spazio bianco del foglio, sostiene Manganelli in Sconclusione. Né mite né generica è la sua scrittura, elaborata per diventare se stessa dalla giovinezza, quando praticava la poesia sulle orme di una madre letterata, fino alla perlustrazione di quel luogo «sommamente rischioso» che era la sua stessa immaginazione, descritto in La palude definitiva, pubblicato postumo nel 1991. Manganelli era morto il 28 maggio del ’90 e La palude era sul suo tavolo in attesa dell’ultima revisione prima della consegna all’editore. Una delle ultime cose che mi disse – ricordo – è che i libri gli venivano ormai fuori senza bisogno di revisioni, solo qualche piccolissimo cambiamento qui e là, e questo non sembrava divertirlo.
Quel lungo laboratorio, fatto di miti ripensati, racconti, frammenti, trattatelli, saggi, diari, scritti dal ’40 all’82, è ora un volume, Ti ucciderò, mia capitale (Adelphi, 300 pagine, 20 euro) curato e postfato da Salvatore Silvano Nigro. «La cosa più sorprendente è che Manganelli è stato subito Manganelli, già vent’anni prima di Hilarotragoedia, il suo esordio letterario del ‘64» mi dice l’italianista e amico dello scrittore, che gli ha già dedicato diversi studi e ha curato per Adelphi la raccolta di riflessioni manganelliane sullo scrivere, Il rumore sottile della prosa. «I suoi temi, le sue ossessioni, le idee su cui ha lavorato per anni, per tutta la vita, erano già presenti nella giovinezza. Si capisce perché i libri gli venivano fuori così perfetti: in realtà li andava elaborando da moltissimo tempo. Le idee dell’inferno e del presepe, per esempio, il giudizio sulla lingua repellente della televisione… E’ la prima volta che di uno scrittore contemporaneo si può studiare una così lunga e articolata officina».
Ancora una volta il nocciolo duro dei suoi lettori, l’elite troppo esigua dei suoi ammiratori, avrà di che godere, si ritroverà al centro del gioco sontuoso e delle spire della sua lingua barocca, ritroverà le immagini irridenti, le metafore da capitombolo, «quella menzognera dilatazione di esseri così sapientemente tatuati su un cencio di nulla» che è per Manganelli la letteratura. Poi quei lettori andranno ai loro scaffali, tireranno giù la vecchia edizione einaudiana di Nuovo commento, la Cina e altri orienti di Bompiani o i rizzoliani Cassio governa a Cipro e Centuria e Amore…. e faranno i loro distinguo, le loro collazioni, i loro confronti. Ma il lettore nuovo? Un eventuale giovane lettore incuriosito dall’universo sconosciuto e ammaliante di Manganelli, che entra in libreria e, attratto dal titolo magari, chiedesse Sconclusione, per esempio? Non esiste. Esauritissimo. E così tanti altri titoli, non ancora ripubblicati dalla Adelphi, che ha prelevato l’opera intera, edita e inedita, e che non prevede una collana di Opera Omnia, unica impresa editoriale che renderebbe davvero giustizia a un autore di così eccentrica, sinuosa importanza.
Incredibile in tempi di e-book che non si possa avere a disposizione tutto. Ma che aspettano gli editori? Perché un autore gigantesco, che ha avuto la colpa di essere troppo prolifico e geniale, dalla lingua troppo bella e «difficile» (o solo troppo avventurosamente italiana) non deve poter raggiungere ogni lettore che ne senta il bisogno grazie almeno alla tecnologia? Mistero. E perché si lamentano della crisi i librai (certi librai, ma sono i più ormai) se entri nei loro negozi e nulla sanno di scrittori, ma sanno solo imbandire sui propri banconi, in prima linea, i soliti best-seller, o supposti tali, deperibili e in tutto simili, a partire dalle copertine, l’uno all’altro o a un allegro mazzo di carciofi?
Scusate lo sfogo, ma mi sono per caso proprio nei giorni scorsi trovata a leggere ai miei studenti, in un corso di scrittura creativa che tengo alla Luiss, e in cui soprattutto educo a leggere e capire se stessi, una lettera in morte del fratello Renzo, di Manganelli appunto, raccolta in un meraviglioso piccolo libro epistolare edito da Aragno, Circolazione a più cuori. Lettere familiari (edito nel 2008, solo tre anni fa, mica un secolo). Commossa io, commossi gli allievi fino alle lacrime, che subito si sono segnati titolo e autore per andare a comprarsi il volumetto. Macché, inutile. «Mai sentito nominare» sostenne il libraio. Forse lo si trova per sbaglio in fondo a un magazzino, o in qualche rarissima libreria gestita da un pazzo che tiene i bei libri e non le immondizie… Auguri. Oppure su Internet, certo, ma non ancora tutti sono così spigliati davanti a un computer, così fiduciosi da rivelare i numeri della carta di credito all’invisibile rete commerciale.
Questa è la situazione, e ora vorrei spiegare perché leggere un autore come Giorgio Manganelli è decisivo per un lettore italiano (non parliamo poi di uno scrittore italiano, magari proprio quello del tipo “a me piace solo la letteratura americana, possibilmente in traduzione che fatico meno”). Comincio dal motivo più facile:
1. Leggere Manganelli, almeno per la prima parte della sua opera, da Hilarotagoedia agli anni ’80, è molto divertente. Mai autore fu più a suo agio con comici ribaltamenti, con scatologiche divagazioni e, allo stesso tempo, con escatologiche dissacrazioni. Lo ha ritratto perfettamente Angelo Guglielmi ricordandolo in un’intervista: «Uno scrittore unico, un eversore paradossale, derisorio e insieme nobilmente delicato. Le sue storie sono esempi di possibilità impossibili, i suoi personaggi sono allegorie, fantasmi burlevoli». E Italo Calvino in una lettera del marzo 1969, all’autore/amico, dopo la lettura di Nuovo commento: «L’ho letto con edonistica impazienza (in poltrona o a letto) e riletto con centellinamento metodologico (a tavolino, con penna e carta per gli appunti). Il divertimento della prima esplorazione (non immune dall’elemento agonistico di lotta col testo labirintico) è stato confermato dalla soddisfazione a ricostruire il piano concettuale (comprensiva del piacere di perdercisi dentro)».
2. Leggere Manganelli è istruttivo. Impossibile farlo senza l’aiuto di un vocabolario. S’imparano termini nuovi a ogni pagina, si resta incantati dal potere combinatorio delle parole, intrappolati negli arditi intrecci delle frasi. Scrisse di lui Pietro Citati in un articolo in morte dell’amico poi raccolto in volume (La civiltà letteraria europea da Omero a Nabokov, Mondadori): «Parlava superbamente. Non ho mai ascoltato nessuno parlare così. Come un grande padre predicatore o un papa rinascimentale o un diplomatico secentesco, ostentava gerundi, participi presenti, parole rare, proposizioni subordinate dentro altre proposizioni subordinate, piuccheperfetti, con una esattissima consecutio temporum, nutrendosi avidamente di parole (…) Lo straordinario era che, in lui, il pensiero più sottile e complicato diventava subito, senza un attimo di incertezza e di dubbio, forma verbale: a tal punto la sua mente era dominata dall’istinto formale».
3. Leggere Manganelli è una vertiginosa esperienza morale. Disse una volta Enzo Golino in un’intervista: «Tutta la produzione di Manganelli è un campo di parole disseminato di bombe d’ogni misura e potenziale. Ordigni di due qualità: una etica, l’altra linguistica, accoppiata piuttosto rara nel panorama delle patrie lettere». Far prevalere, nel giudizio sullo scrittore, il secondo elemento trascurando il primo è fraintendere profondamente le qualità umane della sua scrittura, solo apparentemente astratta. Sentite nuovamente Italo Calvino in una introduzione a Centuria: «Al rifiuto di attribuire al mondo altra realtà che quella di una scrittura geroglifica, Manganelli è rimasto costantemente e rigorosamente fedele. (Come per questa via egli riesca pur tuttavia a esercitare una vera e propria funzione di “moralista” e perfino – uso un termine che susciterebbe tutti i suoi sarcasmi – di “interprete del nostro tempo”, è un exploit che non si può concepire se non vedendolo attuare in pratica)».
Il libro appena uscito da Adelphi, Ti ucciderò, mia capitale è un po’ una summa di questi elementi, il percorso in cui si snodò il filo rosso della sua vita letteraria, filo inevitabilmente araldico trattandosi di un autore che nell’immagine dello stemma vide la migliore rappresentazione della propria cifra o stile. Notò Giorgio Agamben nel saggio Araldica e politica (compreso in Le foglie messaggere. Scritti in onore di Giorgio Manganelli degli Editori Riuniti, a cura di Viola Papetti): «Un filo segreto unisce il ventitreenne ma non ingenuo politologo allo stravolto veggente della fine» e quel filo segreto è probabilmente sintetizzato, sempre da Agamben, in questa lucida osservazione: «Come ogni grande visionario Manganelli vede e contempla innanzitutto la lingua; ma come l’essere è sempre l’essere della lingua, così la lingua è, per lui, sempre la lingua dell’essere».
Il cerchio si chiude e torniamo al peso che la realtà biografica detiene per uno scrittore che aveva in apparente dispregio ogni irruzione della critica nella biografia. Manganelli o della contraddizione. Se così fosse stato, se avesse voluto negare quanto la sua opera fosse commento alla vita, scandaglio scandaloso, inverecondo, dell’anima turbata e sofferente, non avrebbe lasciato bauli pieni di carte conservate a futura memoria, compresi diari, lettere, appunti, taccuini privatissimi, poesie immature, confessioni stravaganti. Né si può sostenere che la morte lo colse di sorpresa. Due mesi prima, la scomparsa della moglie Fausta, abbandonata da anni scappando via da Milano, ma figura centrale della sua mappa sentimentale quanto lo fu un altro grande amore, quello per una giovanissima Alda Merini, l’aveva ferito irreparabilmente. «Mio padre» dice la figlia Lietta «aveva un vero talento per innamorarsi della persona sbagliata. A cominciare da sua madre». La madre. Altra presenza ricorrente nell’opera, non assente nemmeno nei brogliacci di Ti ucciderò, mia capitale (racconto che, sia detto per inciso, alla luce di alcune rivelazioni della stessa Lietta, si potrebbe leggere come una precisa confessione edipico-omicida: la città è ritratta come un immenso corpo di donna, sicuramente matrignesco-materno, amato e odiato).
E chissà che non sia proprio la biografia del padre, che Lietta (da lui chiamata da piccola Torta Fritta e con altri buffi nomi) sta portando a termine fra tormentose difficoltà pratiche ed economiche, a offrire al lettore comune la chiave per avvicinare uno scrittore tanto sofisticato e capirne la tortuosa, eppure terapeutica, umanità, il grimaldello che permetterà di leggere finalmente Manganelli non solo come il grande giocoliere di sublimi divertimenti linguistici, quanto come il profeta predicatore che tutto sa delle cose ultime, della loro terribilità e dolcezza, per averle sperimentate direttamente sulla carne martoriata. Calarsi nella vita di Manganelli è singolarmente simile al calarsi nella sua scrittura, è fare esperienza del ridicolo e del tragico nella loro più efferata concretezza.
«E’ una storia di sparizioni e di fantasmi fin da subito, dalla sua infanzia infelicissima, nato sotto il segno dello Scorpione il 15 novembre del 1922» mi dice Lietta. «Ed è una storia di menzogne e camuffamenti. Una volta m’insegnò: “La verità ha una vita sola, chi mente ha tutte le vite che vuole”. Questo atteggiamento è un’enorme grana per un biografo. Scrivendo il libro ho scoperto più di una volta che qualcosa raccontatami da lui in un certo modo, per altri testimoni seguiva tutt’altro intreccio». E non si tratta di eventi secondari. Per esempio un episodio centrale della parentesi partigiana. Rifiutato l’arruolamento nella milizia della Repubblica di Salò si unì alla Resistenza, prima nel bergamasco, poi a Roccabianca e dintorni, sulle rive del Po, nella povincia di Parma, dove c’era la casa di famiglia. Un giorno del ’44, preso dai fascisti che volevano vendicare la morte di certi loro camerati caduti in un’imboscata, rischiò la fucilazione. Già messo al muro, fu salvato all’ultimo momento. Un’esperienza dostoevskiana che gli si addice. «Lui mi aveva sempre raccontato» dice Lietta «che a salvarlo fosse stato un soldato russo apparso dal nulla come un angelo. Macché! Questa era una versione leggendaria della guerra partigiana. A salvarlo fu un fascista che lo riconobbe e lo stimava, fu lui a urlare: “No, lui no, non c’entra niente, è il professore di mia figlia!”».
Ma le bizzarrie cominciano molto prima, dalla nascita appunto, avvenuta a Milano in via Boscovich numero 4: vi nacquero sia Giorgio sia il fratello Renzo di tredici anni più grande. Solo che quell’indirizzo per il Comune non è mai esistito, la strada comincia dal numero 12 e per ora non si trova traccia dell’altro pezzo. «Se non fosse per questi punti oscuri» dice ancora Lietta Manganelli «sarei già a buon punto. Ma devo chiarirli e non è facile». E non è facile, comunque, muoversi all’interno di legami familiari che sono stati conflittuali e amorosissimi, violenti e scapestrati.
Lietta ha un buon talento per la narrativa, e un grande senso dell’ironia. Si muove a suo agio, apparentemente, fra gli aspiranti suicidi e i fantasmi di famiglia, da suo nonno, padre del Manga (così lo chiama anche lei), che solo in punto di morte si riconciliò con se stesso perché il ragazzo che aveva ucciso in guerra gli apparve ai piedi del letto perdonandolo e dicendogli: «Adesso basta Paolino, è ora di seguirmi» o qualcosa del genere, a sua madre, Fausta, che con lei bimbetta di soli cinque anni in braccio stava per buttarsi dal balcone e fu fermata da quello stesso Paolino in forma di ectoplasma. «Ricordo benissimo che ero terrorizzata e che lei, improvvisamente, si fermò girandosi verso la porta del terrazzo dicendo: “Sei tu, papà”. Chiamava così il suocero a cui era stata molto affezionata. E mi mise giù». Ma anche lo stesso Manga aveva dovuto combattere con una madre che gli chiedeva, ancora piccolo, “vammi a prendere il veleno che mi voglio suicidare” e che aveva speso in cappellini i soldi destinati alla morfina per il marito che soffriva atrocemente.
«Non si capisce da dove viene la madre terribile di Hilarotragoedia e la furia omicida del protagonista, se non si conoscono certi episodi. Quel che sembra invenzione è saldamente radicato nella realtà e conservo ancora un coltello con cui Giorgio si stava buttando su quella madre di cui una volta scrisse al fratello: “mi ebbe fra le mani indifeso quando ero all’inizio della mia storia: ma non si accorse di niente, e mi camminò sopra storpiandomi per sempre”». C’era una storiella che amava raccontare: «La sai la differenza fra una madre ebrea e un condor? Tutti e due ti mangiano il cuore, ma almeno il condor aspetta che tu sia morto».
C’era il senso del ridicolo a salvarlo e una leggerezza che sapeva portare in tanta parte della sua opera come nella vita. Da giovane con il grande amico Augusto Frassineti faceva goliardate del tipo Amici miei. Al ristorante chiamava il cameriere dicendo: «Questa bottiglia di vino è miltoniana, provveda!» Voleva dire vuota, come pensava fosse il venerato (da tutti, non da lui) poeta inglese John Milton. E in autobus suscitavano la compassione del bigliettaio facendosi passare per subnormali. La compagna della sua vita adulta, Ebe Flamini, mi raccontò di essersi fatta conquistare dallo show irresistibile che un Giorgio trentasettenne, appena conosciuto, fece al cospetto della sua automobile nuova, «un’Anglia buffissima con un lunotto posteriore rientrato, che lo entusiasmò».
Molte tracce di questa stravolgente ilarità si trovano in Ti ucciderò, mia capitale. Ed ecco Dio presentato come «il grande Romanziere universale, unico la cui tiratura abbia veramente una dimensione galattica» o questo elogio escrementizio: «Non v’è chi non veda in qual modo l’atto del defecare sia eminentemente numinoso: e infatti (…) il corpo umano altro non è che un ingegnoso pentacamere fatto per l’ospizio della merda, la quale vi fa sosta quanto vuole, e poi quando vuole ne esce; (…) così che solo la merda porta seco uscendo per sagrestia posteriore gli indizi dell’anima, dell’uomo interiore, dello spiritus intus».