Camera con vista (Liberal/Moby Dick 10/9/11)
«Le donne che odiano gli uomini, le donne di questo libro, sono, in realtà, le donne che amano più profondamente l’essere umano», così scriveva Giovanni Bollea, padre della moderna neuropsichiatria infantile e persona saggia, scomparso in febbraio, in una prefazione autobiografica (una delle ultime cose che ha scritto) a un libro di Francesca Pansa, uscito in maggio negli Oscar Mondadori, dal titolo Donne che odiano gli uomini. Un suggerimento, quello di Bollea, che va accolto anche se leggere le storie ragionate e proposte da Francesca Pansa fa male. Storie vere, storie tremende, che ricordiamo di aver letto sui giornali oppure ritroviamo nelle ricostruzioni dei familiari delle vittime (la mamma di Elisa Claps, le figlie di carnefici come il mostro di Firenze abusate dal padre) e riassunte con dolente minimalismo, con commovente asetticità perché risaltino ancora più inaccettabili nel loro orrore. Una galleria di sopraffazioni sessuali e sociali, ricatti, sequestri, omicidi, dove la brutalità dei maschi ha, quasi sempre, la meglio sull’innocenza o il coraggio delle vittime. Fa impressione percorrere queste vicende tutte insieme, che acquistano, rispetto alla cronaca, una loro grandiosità mitologica. Quando poi l’autrice, alla fine del libro, si trova a Mosca sotto la scarna targa al numero 8/12 di Ulica Lesnaja, la «Via dei Boschi» che dice solo: «Qui abitava Anna Politkovskaja» non possiamo che constatare con lei e con identica (taciuta ma ben presente) costernazione: «non è una lapide di quelle che magnificano lo scomparso». No, queste donne violate, eliminate, messe a tacere non hanno nemmeno diritto a un monumento. Cancellate nel sangue, e questo è tutto. Donne che odiano gli uomini non è una lettura «estiva», mi si obietterà, soprattutto in un’estate già abbondantemente deprimente come quella in corso, lanciata verso l’incerto futuro delle nostre finanze. Ma è sempre il momento, invece, di stare in guardia, consapevoli e belligeranti contro il sopruso, privato e pubblico, sessista o generale. «L’inferno sono gli altri» diceva Sartre, l’inferno – per tante donne – sono obiettivamente gli uomini, spesso i più vicini: mariti o ex-mariti, fidanzati, padri.
Ma ecco che, con l’inesorabilità degli eventi mondani siamo travolti dal Festival del cinema di Venezia. Grande agitazione per il nudo di una Monica Bellucci che nudi non ne ha mai lesinati, ma che fa parlare tanto perché… ha ben 47 anni suonati. Naturalmente tutti si affrettano a dire che «non li dimostra» (tanto per restare in tema di violenza e volgarità contro le donne). A mio parere sarebbe meglio se li dimostrasse e finalmente anche un’attrice italiana avesse la forza di apparire una donna vera, segnata dalla vita e dalle gravidanze, come Vanessa Redgrave o Charlotte Rampling, per citarne due non a caso grandissime. Una, invece, che si ostina a digiunare per avere la fisicità di un’eterna adolescente è la molto anoressica e scostante Isabelle Huppert, che incontrai per un’intervista (risultata quasi impubblicabile per le banalità che riuscì a sciorinare nel suo chiaro salotto parigino, dopo avermi fatto aspettare sotto la pioggia per due ore, rimandando di dieci minuti in dieci minuti l’appuntamento) quando, nel 2006, portò in teatro Le dieu du carnage, pièce molto lodata della francese Yasmina Reza, altro significativo caso di successo che dà alla testa e che, da esseri umani normali, trasforma in ispide creature respingenti. Cito quest’operina, ora pubblicata da Adelphi col titolo Il dio del massacro, perché è diventata un film di Roman Polanski presentato a Venezia che vanta nel cast Jodie Foster e Kate Winslet.
Non avendo ancora visto il film di questo regista diseguale, ma spesso entusiasmante, mi chiedo come gli sia venuto in mente di trasporre per il cinema una commedia a quattro personaggi molto statica e basata su uno small talk che nasconde a quasi ogni battuta la staffilata di un doppio messaggio. Già a teatro la ricordo appesantita da un eccesso caricatural-grottesco che Huppert governava da mattatrice, oscurando gli altri attori e imponendo su tutto la sua nevrosi motoria, alternata a momenti di astrazione depressa. Due coppie s’incontrano per dirimere civilmente un increscioso incidente: i figli hanno litigato ai giardinetti e uno ha malmenato l’altro spaccandogli i denti. Si considerano persone morali e corrette, che ascoltano le motivazioni dell’altro e desiderano venire a capo della questione nel modo più onesto. Salvo che sono tutti sottoposti al dio della carneficina e dell’aggressività, e alla malcelata convinzione di essere ognuno il migliore del gruppo (le donne in particolare). Così l’incontro rischia il disastro. Una piccola idea, insomma, dove grandi attori e grandi registi si sbracciano per apparire superiori al tutto, mentre forse sarebbero bastati Ciccio e Ingrassia a svolgere un lavoro egregio. Ma vedremo cosa ne ha fatto Polanski, molto amico della scrittrice, la quale lo difese a spada tratta nel recente ri-inciampo nella giustizia americana. Reza, per parte sua, ha saputo fare di meglio in passato (ricordiamo il bel monologo Una desolazione, tradotto da Bompiani, o le commedie Art e L’uomo del caso, di cui mi capitò di vedere una deliziosa messinscena di Catherine Spaak, finita malamente per le intemperanze dell’autrice che si rivoltò con ragioni poco sostenibili contro l’attrice).
Yasmina Reza è quel tipo di autore che concede rare interviste (e questo va a suo onore), molto nevrotica e viziata dal consenso internazionale, e che (come successe nel caso mio) se la prende con l’intervistatore se poi l’articolo esce corredato da una foto impietosa sul suo precoce doppio mento. Per questo peccato di lesa maestà, che non poteva dipendere da me, non essendo l’inviato la stessa persona che confeziona materialmente le pagine del giornale in cui scrive, mi beccai da lei una porta sbattuta in faccia nel retro del teatro parigino (Parigi, di nuovo)! Ne fui tanto più sorpresa perché avevamo molto simpatizzato durante l’intervista e mai prima, in tanti anni di onorata carriera e di incontri con scrittori italiani e stranieri di primo piano, mi era successo di ricevere un simile indecoroso trattamento dopo la pubblicazione di un’intervista lunga, intelligente (per merito suo e mio), documentata e che – oltretutto – avevo lottato per imporre non essendo allora la Reza minimamente nota in Italia. Tant’è, incerti del mestiere. E delle donne, che – purtroppo – quanto a vanità, risultano spesso molto più fragili degli uomini, amati o odiati che siano.