Guarda gli arlecchini! (dal Foglio 28/9/12)

Guarda gli arlecchini! (dal Foglio 28/9/12)

Vladimir Nabokov

Un libro come Guarda gli arlecchini! di Vladimir (Vladimirovič) Nabokov, ultimo pubblicato in vita e ora proposto in italiano da Adelphi nella traduzione ammirevole di Franca Pece, è di quelli che dovrebbero essere inclusi nell’opera omnia, ma non rischiare il volume singolo. Che se, per disgrazia, un lettore alle prime armi con il grande russo provasse a cominciare da lì per conoscerlo, finirebbe col non arrivare in fondo non solo di questo romanzo, ma anche di tutti gli altri e perderebbe così meravigliose opere come Pnin, Il dono, Ada, Lolita. Già il titolo sembra uno scherzo. Come sembrano uno scherzo le celebri metafore nabokoviane, gli inimitabili riflessi su superfici di qualsiasi genere, i labirintici giochi di parole: qui infilzati in modo inerte, arzigogolati, privi di magia. Condivido lo sconcerto con la critica che fu unanime, quando il romanzo uscì nel 1974, a giudicarlo «uno stanco gioco autoreferenziale». Persino uno scrittore fortemente nabokoviano come Martin Amis commentò: «L’imperfezione fuori controllo di Guarda gli arlecchini! è tutta nella mancanza di grazia della sua prosa». Sul Times Anatole Broyard infierì: «Immaginazione paralizzata dalla vanità». E pure Brian Boyd, il più importante biografo e studioso di Nabokov, ammette che nemmeno la luminosità delle ultime pagine in cui entra in scena un “Tu” – che poi sarebbe l’amatissima moglie Vera – riescono a riscattare il «vuoto di tutte le altre». Ma il più duro fu Peter Ackroyd che ingenerosamente decretò: «Questo è il romanzo che mette la parola fine a tutti i romanzi di Nabokov, o almeno si spera». (E in effetti Vladimir morì 4 anni dopo senza pubblicare niente altro).

Il titolo, dicevamo: viene spiegato nel secondo capitolo, dove una “prozia” di «discendenza tolstojana» dà la sua fondamentale lezione artistica al nipote portato per le fantasticherie: «Smettila di tenere il broncio! Guarda gli arlecchini!» E gli “arlecchini” sono… tutto: gli alberi, le situazioni, soprattutto le parole. Incita la prozia: «Metti insieme due cose – due arguzie, due immagini – ed eccoti un arlecchino triplo. Avanti dunque! Gioca! Inventa il mondo! Inventa la realtà!» L’esuberanza di esclamativi è di per sé allarmante. Lo scrittore in erba si chiama Vadim Vadimovič N., palese caricatura dello stesso autore, che vuol qui mettere alla berlina la narrazione autobiografica. Eppure proprio Nabokov si era concesso lo splendido memoir Parla, ricordo; quando scrive gli Arlecchini non ha la serenità né la leggerezza dell’intenzione parodistica ed è abbastanza impressionante – anche molto istruttivo – osservare lo scheletro del suo celebre fraseggiare, quel suo prodigioso sfornare immagini, associazioni, iperboli che però qui suona meccanico e produce non bellezza, ma noia; quasi che a scrivere non fosse l’impareggiabile autore di Fuoco pallido, bensì un imitatore, bravissimo a riprodurre un modello e insieme incapace di “anima”. Boyd suggerisce che il dispettoso, acrobatico Nabokov potesse aver inteso dimostrare come non basti un contenuto rocambolesco o una solida struttura linguistica a generare un bel romanzo: se manca lo stile – quello davvero inimitabile – manca tutto. Così la falsa autobiografia del falso Vadim produce falsa prosa: una spiegazione talmente autolesionistica da essere francamente inattendibile.

Con la moglie Vera

Nel periodo in cui scriveva questo romanzo l’autore di Fuoco pallido aveva in corso uno spiacevolissimo scontro con il giovane biografo Andrew Field, reo di aver carpito la sua buona fede e di voler dare alle stampe un libro pieno di falsità e di giudizi infondati: The Life and Art of Vladimir Nabokov (che poi comunque uscì). E’ possibile che la rabbia per la losca operazione l’abbia turbato al punto di privarlo della grazia proprio mentre avrebbe voluto distruggere l’impertinente con le armi della letteratura? Lasciamo il rebus ai nabokoviani che da allora ci si lambiccano e limitiamoci a osservare che non a tutti gli scrittori è dato produrre capolavori per la vita intera. Il difficile è fermarsi in tempo.

 

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