Duras e “Il dolore” (l’Unità 16/01/10)
«Fra le cose più importanti della mia vita», così Marguerite Duras definì Il dolore, un diario scritto alla fine della guerra e ritrovato molti anni dopo in un vecchio armadio. Pubblicato nell’85 (in Italia da Feltrinelli) senza aggiustamenti: «un disordine formidabile del pensiero e del sentimento che non ho osato toccare, e davanti al quale mi vergogno della letteratura».
E’ l’aprile del ’44, a Parigi, i giorni turbinosi che precedono la Liberazione. Il marito della scrittrice, Robert Antelme, deportato a Buchenwald e poi a Dachau, è disperso. Duras registra l’angoscia dell’attesa, la felicità del ritrovamento, e il trauma del ritorno. Robert è tornato, sì, ma in condizioni raccapriccianti. E’ una larva, uno scheletro, un morto. Marguerite e Dionys Mascolo (il grande amore della sua vita e miglior amico di Antelme) lo accudiscono incessantemente, lo nutrono con un cucchiaino. Fino alla lenta ripresa, fino al ritorno alla vita. Il racconto non risparmia nulla dei dettagli più raccapriccianti, delle considerazioni sui sentimenti contraddittori dei vivi. E’ un testo scorticato, disperatamente sincero. Alla Storia s’intreccia la vicenda personale del matrimonio finito, del tradimento, della scomoda verità di un nuovo amore nato alle spalle del moribondo.
Antelme non perdonò mai a Marguerite, non il tradimento con Mascolo, ma di aver descritto la sua fisicità ferita con tanta impudicizia, lui così riservato. Restarono comunque legati tutti e tre per tutta la vita in un nodo inscindibile. E lui pubblicò, nel ’47, uno dei più bei libri sull’olocausto, ingiustamente dimenticato, L’Espèce humaine. La tesi, riassunta da Duras nel Dolore è questa: «Se l’orrore nazista viene considerato un destino tedesco, non un destino collettivo, l’uomo di Belsen sarà ridotto a vittima di un conflitto locale. Una sola risposta per un tale crimine: trasformarlo nel crimine di tutti».