Un bel libro di Mario Fortunato (Unità, 8/5/13)

Un bel libro di Mario Fortunato (Unità, 8/5/13)

George Clooney sul Lago di Como

George Clooney sul Lago di Como

Su un ramo del lago di Como continua a comparire e scomparire George Clooney, insieme presenza reale che frequenta un certo ristorante, sorride alle ragazze che svengono al suo passaggio, rompe il motorino e lo riaggiusta con l’aiuto di un passante, e insieme fantasma sognato e fantasticato chiuso nella verde prigione della sua villa. Che ci fa Clooney in Italia? Come mai ha preso casa proprio a Laglio se il Bel Paese gli interessa tanto poco da non aver imparato nemmeno il più basico italiano? Laglio non arriva a mille abitanti, si trova sulla sponda occidentale del Lario e dista quindici chilometri da Como. Ma è un luogo letterario. E Villa Oleandra, acquistata dal celebre attore, è una dimora storica fra le più belle di quelle rive. E poi forse Clooney è un lettore e non gli saranno sfuggite le tante relazioni di viaggio dei suoi connazionali (e non solo) da Melville a Susan Sontag, da Mark Twain a Jonathan Franzen che hanno incluso il lago manzoniano nei loro giri italiani. Probabilmente ha saputo che Gustave Flaubert, in visita nel 1845, andava dicendo di voler «vivere o morire qui». E non gli sarà sfuggito che nella Certosa di Parma Stendhal distingue i due rami del lago sostenendo che quello di Como è «pieno di voluttà» e quello di Lecco «pieno di severità» (fra parentesi non dubitavamo che per mettere su casa George avrebbe scelto il primo).

Colin Firth

Colin Firth

Trovo queste suggestioni in un libro eccentrico, L’Italia degli altri di Mario Fortunato, che esce questa settimana da Neri Pozza, curiosa alternanza di autobiografia minima, evocazioni letterarie, riflessioni sul modo che hanno gli stranieri di vedere gli italiani e come questo modo non sia sostanzialmente cambiato dai tempi del Gran Tour a oggi. Sono tre, in particolare i luoghi che Fortunato prende in considerazione nella sua ricerca, luoghi centrali della sua esistenza: la Calabria dove è nato, Como e il lago dove per un periodo si è occupato di incontri culturali e artistici, e la Sabina, nei dintorni di Rieti, sotto al monte Soratte, dove risiede abitualmente quando è in Italia. Gli incontri dell’autore, le discussioni a cena con persone che qualche volta sono persone note (Colin Firth, Giulio Einaudi, Peter Stein) altre no, si alternano a citazioni letterarie illuminanti evocate in un processo di libere associazioni tali da toccare i punti nevralgici dell’argomento. Nessuna cronacaccia contemporanea, scandali o votacci europei, ma quello sguardo lungo in cui il nostro paese si è potuto riflettere nel corso dei secoli, diventando spesso scenario privilegiato di grandi romanzi o prendendosi pagine e pagine nei diari e nelle lettere di scrittori viaggiatori o viaggiatori tout court.

Già per Edith Wharton, l’autrice dell’Età dell’innocenza, l’Italia è «la terra in cui tutto può accadere, tranne il banale, l’ovvio, e il prevedibile» ed è in qualche maniera una chiave per spiegare l’anomalia italiana che ci rende bizzarri, imprevedibili appunto, e quindi inaffidabili, oggi come nel primo Novecento. Henry James arriva a chiedersi: «Perché in Italia giudichiamo affascinante ciò che in altri paesi considereremmo sicuramente un indizio di volgarità?» La risposta per Fortunato sta in una specie di gioco del rovescio per cui ad essere attratta dalla confusione italiana è sempre stata soprattutto la cultura anglosassone, ordine contro caos, serietà contro arte di arrangiarsi, self-control contro sensualità, per quell’attrazione verso «il diverso che ci svela a noi stessi» e di cui l’autore coglie la forte metafora nella forma architettonica dei giardini, espressione incrociata dell’inconscio delle due nazioni. Il giardino all’italiana rinascimentale è fatto di rigore geometrico dove tutto deve essere tenuto sotto controllo e lo spazio viene dominato e ridotto a quinta teatrale, mentre il tradizionale giardino inglese che si sviluppa nel corso del Settecento è un trionfo di rigoglio (fintamente) naturale, ispirato a una vecchia visione dell’Italia più selvaggia dove piante e fiori si arrampicavano liberamente fra le rovine e che faceva dire a John Ruskin: «L’orrore di vivere fra questi sporchi, spregevoli italiani, e di vederli comportarsi come cani e mosche fra i sepolcri e le chiese dei loro padri…» fino all’amara constatazione: «I veri abitanti dell’Italia sono i morti» per dire che i vivi non meritavano la terra che avevano ereditato.

Tipico giardino detto "all'inglese"

Tipico giardino detto “all’inglese”

Risuona in queste parole aspre «un mix talvolta sconcertante di amore vero e vero complesso di superiorità verso gli italiani», osserva Fortunato, ma il disprezzo si arrende quasi sempre di fronte a un dato ineluttabile: la bellezza. E’ la bellezza che porta alla felicità, altro elemento che torna nelle osservazioni degli stranieri sul nostro paese. «C’era qualcosa di animale nel mio amore per Roma» dice esaltato Frederic Prokosch, autore del meraviglioso Voci. «Rimasi a Roma cinque anni. Furono anni di continua felicità». E il poeta Josif Brodskij parlando di Venezia: «La bellezza circostante è tale che quasi subito si è presi da una voglia assolutamente incoerente, animalesca, di tenerle testa».

Parole di ammirazione che sono risuonate persino nel discorso programmatico di Enrico Letta sul suo governo: «La nostra tendenza all’autocommiserazione è pari solo all’ammirazione che l’Italia suscita all’estero. Molti stranieri vogliono bagnarsi nei nostri mari, visitare le nostre città, mangiare e vestire italiano». Per fortuna è pur sempre così, e sarebbe ora che imparassimo ad esserne fieri, e a proteggere tanta bellezza.

 

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