Gli epistolari negletti (LEFT, 26/10/13)
Cerimonioso è l’aggettivo che ricorre più spesso quando si parla di Carlo Emilio Gadda. Ogni volta che il Gaddus, come si definiva lui stesso, compare nei ricordi degli amici o dei comuni testimoni della sua sofferta umanità eccolo alle prese con una goffa incapacità di vivere e di sostenere relazioni sociali, in cui si destreggia ricorrendo a un complesso sistema di formule di cortesia, implorazioni di scuse, impennate di contorte affermazioni. A leggere adesso le lettere che inviò a Pietro Citati fra il 1957 e il ‘69 raccolte in Un gomitolo di concause (Adelphi, 240 pagine, 14 euro) la conferma di quella personalità cerimoniosa è evidentissima. Ma il bello degli epistolari è proprio l’autenticità con cui – persino quando si mimetizzano dietro le manfrine dell’autorappresentazione – i grandi personaggi si rivelano. E non si deplorerà mai abbastanza quanto biografie e memoir, libri testimonianza e epistolari siano negletti nell’editoria italiana, quasi si trattasse di un genere di serie B, o – peggio – d’improprie scorribande nel sacro territorio del privato. Ma non è il privato di un artista il grande bacino dell’ispirazione, il pozzo di esperienze necessarie alla scrittura? E per il lettore un modo di avvicinare a sé l’autore amato, come ricorda persino il ritroso Philip Roth nello Scrittore fantasma: «Quando ammiri uno scrittore, t’incuriosisci. Cerchi di carpire il suo segreto. Gli indizi per risolvere l’enigma che rappresenta».
L’enigma Gadda è di quelli particolarmente complessi. «Per lui la realtà era sempre stata qualcosa di turpe» spiega Citati in un suo saggio famoso dedicato all’Ingegnere, che viene riproposto a commento del volumetto adelfiano, puntigliosamente curato da Giorgio Pinotti, autore a sua volta di un necessario ritratto dei due protagonisti del libro: Gadda, appunto, e lo stesso Citati. Perché in un epistolario gli autori sono sempre almeno due e anche se qui mancano le lettere di risposta di Citati a Gadda, la voce del destinatario assente è chiara quanto quella del mittente. Vediamo lo scrittore del Pasticciaccio affidarsi progressivamente all’allora giovane consulente della Garzanti di cui diventa amico e al quale racconta le sue disavventure di nevrotico cercando rassicurazione.
Curiosamente ritroviamo un rapporto analogo fra Giuseppe Ungaretti e il tanto più giovane critico e redattore di programmi culturali radiofonici, Leone Piccioni, in un altro epistolario pubblicato in questi giorni, L’allegria è il mio elemento (Oscar Mondadori, 365 pagine, 12 euro) e che, per un gioco del caso, raccoglie 300 lettere scritte più o meno nello stesso arco temporale: fra il 1946 e il ’69. L’ha curato Silvia Zoppi Garampi ed è introdotto dallo stesso Piccioni. Personalità estroversa, spavalda, capace di macinare il dolore per superarlo in versi quella del poeta, eppure bisognosa, ancora una volta, dell’accudimento quasi paterno, tenerissimo del suo amato «Leoncino». Sono lettere cariche di richieste, queste di Ungaretti come quelle di Gadda, raramente generose, in cui passano veloci giudizi su altri scrittori, ammirati o beffardi: la “Elsina” di Gadda è la Morante, mentre per “Ungà” ricorre “l’ombra” dell’altro grande poeta, Montale, sempre sentito rivale perché riconosciuto e apprezzato più del giusto (secondo Ungaretti) dall’ambiente letterario.
Certo sempre così ripiegati su se stessi, così narcisisticamente o istericamente concentrati sul proprio ego sia l’uno sia l’altro, così pronti a riconoscere il talento dei due destinatari, ma in qualche modo per “approfittarne” egoisticamente e asservirli alle proprie esigenze terapeutiche, editoriali, affettive, che si resta sgomenti e viene il sospetto che una simile sterilità umana non riguardi solo Gadda e Ungaretti, ma un po’ in generale molti dei nostri intellettuali, non a caso distanti sentimentalmente dai lettori, soprattutto i lettori più giovani. Almeno per come appaiono nelle lettere diciamo così di tipo “professionale”, che sono poi le uniche su cui è dato giudicare. Purtroppo mancano in Italia gli epistolari d’amore come si ritenesse sacrilego documentare per i posteri la portata delle grandi passioni, ovvero ciò che da sempre ha alimentato non solo le esistenze, ma l’opera di tanti poeti, narratori, artisti.
Quando l’anno scorso il nipote Daniele Morante ha pubblicato una prima raccolta di «lettere di e a Elsa Morante» (L’amata, Einaudi, 682 pagine 30 euro) ha rivelato che il libro costituiva solo un decimo del corpus intero, 5500 documenti in tutto. E’ piuttosto scandaloso che solo nel primo centenario della nascita e a un decennio dalla morte ci si sia decisi a rendere nota almeno in piccola parte (e con molti ingiustificati omissis) le lettere di una scrittrice tanto importante, mentre perdura, fra l’altro, la lacuna di una biografia ampia e documentata. Non so quale maledizione gravi sulla nostra storia culturale, ma l’indifferenza dell’editoria e la reticenza che gli eredi oppongono, in genere, alle ragioni del biografo condannano una volta di più le grandi voci della nostra tradizione all’oblio ben oltre il destino periferico dell’inevitabile marginalità linguistica.
La nostra incapacità di costruire leggende intorno alle glorie letterarie di cui ignoriamo le esistenze, le relazioni con altri artisti, il coinvolgimento con il loro tempo, va di pari passo con la disaffezione del pubblico anche verso i nomi più interessanti, poco amati e pochissimo letti. Che sia il retaggio della neoavanguardia, quel Gruppo ’63 tanto ostile a tutto ciò che non fosse analisi del testo, o piuttosto la natura stessa del popolo italiano provinciale, sospettoso, abituato da secoli a nascondere la sua vera natura, a non giocare mai a carte scoperte? L’eccezionalità di Pier Paolo Pasolini è istruttiva: praticamente unico nel coraggio di esporsi – anche biograficamente – allo sguardo indiscreto dei contemporanei e quindi dei posteri.