E poi apparve lei, Elsa Morante (F settimanale, 4 novembre 2020)

E poi apparve lei, Elsa Morante (F settimanale, 4 novembre 2020)

Elsa Morante più o meno come mi apparve a Villa Borghese

Era il 31 ottobre del 1982. Dieci giorni dopo sarebbe arrivato in libreria il nuovo libro di Elsa Morante, Aracoeli. Avevo da poco compiuto 30 anni e lavoravo per le pagine culturali del Messaggero. Quel giorno mi trovavo per l’aperitivo a Villa Borghese col mio caposervizio, Ruggero Guarini. Eravamo seduti all’aperto alla Casina Valedier, perché era una mattinata bellissima e dovevamo festeggiare. Era uscita quel giorno in esclusiva sul nostro giornale l’anticipazione di quell’attesissimo romanzo. Elsa aveva negato a tutti interviste e anticipazioni, ma al suo amico Ruggero aveva finito col dire di sì. Avevo seguito le trattative. Guarini le aveva assicurato al telefono che l’avrebbe lasciata libera di impostare lei la pagina: avrebbe scelto lei titolo e foto. «Ti giuro che se vuoi» si era spinto a dirle «io me ne vado via dalla redazione. Fai tutto tu, scendi in tipografia e impagini». Lei in tipografia non c’era andata, ma aveva scelto una foto stupenda in cui era giovane e maliziosa, e abbracciava uno dei suoi gatti. Il titolo era un virgolettato: «Non resterà pietra su pietra» tratto da un’intervista che accompagnava l’anticipazione e che Costanzo Costantini, uno dei pochi giornalisti con cui Elsa Morante accettava di parlare, le aveva fatto mesi prima ma, per non farla arrabbiare, si era tenuto nel cassetto. Era un’intervista struggente, in cui lei raccontava il suo spaesamento e il desiderio di sparire, di morire. «Non lo vede che stiamo andando verso la distruzione di tutto l’Universo?» gli diceva. «Non credo neanche che si arrivi al 1985, figuriamoci se credo nell’immortalità. Io credo che sarà distrutta tutta la Terra…»

Elsa Morante con uno dei suoi gatti

Adesso fa impressione che le sia venuto in mente, fra i tanti possibili, proprio il 1985, l’anno in cui sarebbe morta, un 25 novembre. Ma insomma, quel giorno eravamo alla Casina Valadier e stavamo alzando i bicchieri, quando l’abbiamo vista. Camminava traballante, con la testa avvolta da un ampio foulard e il corpo sformato nascosto in una palandrana indiana. Si trascinava su due scarpe che erano piuttosto delle pantofole, appoggiandosi al suo bastone messicano, in compagnia di un ragazzo coi riccetti, uno di quei giovani pasoliniani che le piacevano tanto.  Da lontano riconobbe Guarini, lo salutò scuotendo il braccio e si avvicinò al nostro tavolino. La pagina era venuta bene, disse impedendogli di alzarsi in piedi e guardandolo dall’alto in basso come una regina. Io ero ammutolita, come davanti a un’apparizione non di questo mondo. Elsa Morante per me era la Vergine Maria per un cristiano praticante. Trovarmela di fronte in carne e ossa, pur così diversa dall’immagine che ne avevo (più o meno quella della foto col gatto) era un evento straordinariamente emozionante.

Lo ricordo come fosse ora. E anche quel che è successo subito dopo, che ha umiliato profondamente la mia ingenua venerazione. Guarini, sapendo quanto ci tenessi, tentò di attirare la sua attenzione su di me spendendo parole gentili. Ero una giornalista culturale che si stava affermando, soprattutto ero una giovane scrittrice che aveva letto tutti i suoi libri (avevo pubblicato solo delle poesie e qualche racconto su riviste letterarie). Lei apparve infastidita. Non mi degnò di uno sguardo e lo salutò bruscamente, ingiungendo al ragazzo che l’accompagnava di cercarle un tavolo al sole.

Il libro di De Ceccatty

Ho ripensato a quell’episodio, dopo tutti questi anni, traducendo la ricca biografia di René de Ceccatty Elsa Morante. Una vita per la letteratura (Neri Pozza, 414 pagine, 20 euro) che non è per niente agiografica, anzi seccamente (e giustamente a mio parere) distante e un po’ anaffettiva. La crudeltà del suo carattere viene raccontata in tanti episodi diversi, con oggettività da “straniero”. Perché l’autore, che conosce perfettamente la nostra lingua e la nostra cultura, non ha però l’atteggiamento adorante che hanno tanti italiani verso la Morante. E questo gli ha permesso uno sguardo oggettivo, sia sulla persona sia sull’opera. Ed ecco la bambina, figlia di due padri (quello ufficiale che le ha dato il nome, Augusto Morante, e l’amante di sua madre, Francesco Lo Monaco, che morirà suicida e che lascerà nei suoi libri più di una traccia). Ed ecco la madre, intelligente e ambiziosa, Irma Poggibonsi, che voleva essere scrittrice e poi proietterà sulla figlia le sue aspirazioni mancate. Ecco il giardino sulla Nomentana dove Elsa cresce presso la ricca madrina montessoriana, Maria Maraini Guerrieri Gonzaga, e scopre le differenze di classe che diventano in lei scissione della personalità. Lo scopre lei stessa ventitreenne scrivendo il racconto Patrizi e plebei (pubblicato su Oggi nel 1939 e attualmente nella raccolta postuma Racconti dimenticati, Einaudi): «l’anima mia… era un mostro ipocrita e spietato. Anzitutto, mentre gli altri mi credevano piccola, ero grande. O meglio, c’erano in me due persone, una piccola e una grande; ma la piccola, servilmente fingeva di lusingare la grande».

E’ questa la chiave che la porterà al successo, sposando lo scrittore più famoso del momento, Alberto Moravia, ma innamorandosi perdutamente di artisti omosessuali (Luchino Visconti, Bill Morrow), e scrivendo libri grandiosi e disuguali, sospesi fra realismo e fiaba, barricandosi in una cerchia di amici succubi che amava e bistrattava secondo gli umori e in un’infelicità senza rimedi che le farà dire, attraverso la protagonista dell’ultimo romanzo, Aracoeli: «Non c’è niente da capire» con la stessa distanza ultraterrena della Morante che avevo incontrato a Villa Borghese.

 

 

 

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