Dostoevskij e il tavolo verde (Il Foglio, 4/6/21)
Fu la nascita di un figlio, a cui diede il suo stesso nome, Fëdor, a convincere Dostoevskij ad abbandonare il vizio del gioco. Un vizio che lo aveva tormentato per un decennio, fra i quaranta e i cinquant’anni, e di cui è rimasta testimonianza in tante lettere e in un romanzo, Il giocatore, del 1866, quando ancora lo scrittore era immerso nella schivitù devastante del tavolo verde. Giocava alla roulette, vinceva, perdeva. Si esaltava, si detestava. «Domani, domani tutto finirà!» è l’ultima frase del romanzo. Ma domani non si resiste, si rientra nel Casinò e si gioca, si gioca fino a perdere tutto. Tutto, fino a non avere nemmeno un soldo per mangiare, per dar da mangiare alla famiglia, ai figli. È impressionante da stare male il resoconto di questi dieci anni che viene fuori dalla scelta delle lettere dello scrittore sul tema, fatta da Fausto Malcovati per La febbre del gioco, edito da Marcos y Marcos (pp.150, 16 euro). La traduzione è di Giovanni Gorla.
Dostoevskij scrive queste lettere disperate, chiede aiuto, chiede perdono. Scrive al fratello, ad Anna, la giovane seconda moglie (la prima l’aveva lasciato vedovo), all’amante Apollinarija (la Polina del Giocatore), scrive all’ex cognata, agli amici, fra i quali Turgenev che, lui pure affetto dalla stessa dipendenza, prima lo aiuta e poi non ne può più e lo scarica. Fëdor si preoccupa anche del figlio della prima moglie a cui cerca di fare da padre. Ma in questo senso: «Non deve sapere che il suo papà gioca alla roulette». Se ne vergogna, e quindi chiede ripetutamente ai vari interlocutori di mantenere il segreto, «della mia situazione (intendo delle perdite) non parlare con nessuno» scongiura. Si arrovella intorno a un “sistema” infallibile per vincere: «È terribilmente stupido e semplice: consiste nel controllarsi continuamente, a prescindere dalle fasi di gioco, nel non accalorarsi. Tutto qua: in questo modo è impossibile perdere». Ma bisognerebbe staccarsi dalla roulette al momento giusto. Non rigiocarsi immediatamente tutta la vincita precedente. Bisognerebbe restare lucidi. Bisognerebbe, soprattutto, non amare il gioco, l’adrenalina che sale, non avere il gusto perverso di correre verso l’autodistruzione. «In un quarto d’ora ho vinto seicento franchi. La vincita mi ha eccitato. Ho continuato, ho iniziato a perdere, non sono riuscito a trattenermi e ho perso tutto».
Se i quattrini che chiede in prestito non arrivano, s’impegna quello che ha: l’orologio, persino il cappotto., che speriamo non fosse liso come quello di Gogol! Ma l’aspetto più sorprendente accanto alla febbre da gioco di Dostoevskij è un’altra febbre, quell d’amore di sua moglie, che più lui le scrive «Anja, cara, sono un mostro!» continuando a bussare a soldi (che lei a un certo punto non ha), tanto più lo comprende e asseconda. Nelle sue Memorie di cui il libro della Marcos y Marcos offre uno stralcio, lo giustifica così: «era tormentato dalla preoccupazione di non riuscire a nutrire la sua crescente famiglia». Suo unico scopo, rifornendolo come poteva di denaro, era vederlo tornare e rimettersi a scrivere, perché solo quando aveva perso tutto, Fëdor placava il profondo bisogno di punizione che Freud (anche lui antologizzato nel libro) spiegò nel saggio Dostoevskij e il parricidio come «soddisfacimento autoerotico», secondo una patologia che il curatore Malcovati riassume in questa terribile catena: «blocco della scrittura-ansia-gioco-perdita-senso di colpa-umiliazione-desiderio di riscatto-ritorno alla scrittura». Perché (e questo è di nuovo Freud): «la produzione letteraria non procedeva mai così bene come quando egli aveva perduto tutto».
Ma quel che conta è il ravvedimento. Come aveva cominciato, altrettanto bruscamente, Fëdor sconfigge il suo demone, e il 28 aprile 1871 può scrivere alla moglie senza smentirsi in seguito: «Adesso lavorerò tutta la vita per te e per Ljuba; vedrai vedrai. Mi prenderò cura di voi!» E anche di noi lettori, visto che doveva ancora scrivere, tra il molto altro, I demoni e I fratelli Karamazov.