Ritorno a teatro (L’Immaginazione n. 324 luglio agosto ’21)

Ritorno a teatro (L’Immaginazione n. 324 luglio agosto ’21)

Mario Martone con Ippolita di Majo

Ho scelto il teatro per tornare alla vita normale. Non il cinema, il teatro. E tutto era (quasi) come prima. A parte le mascherine, a parte il distanziamento. Ma il Teatro India, il mio preferito sulla scena romana, era sempre lui, con il giardino e il bar e la gente che parlava animatamente aspettando di poter entrare in sala. Una nuova sala, in un altro padiglione. Ma l’atmosfera identica. E c’era anche Citto Maselli seduto al bar, che parlava con Mario Martone. Perché Citto era inevitabilmente coinvolto nella storia (quella vera) che veniva rappresentata. Il filo di mezzogiorno di Goliarda Sapienza, adattato per la scena da Ippolita di Majo, con la regia di Martone appunto. Maselli è stato a lungo innamorato compagno, riamato, della scrittrice catanese; si parla anche di lui in quel testo del ‘69, poi ripreso dalla Tartaruga e recentemente dalla Nave di Teseo. Come tutti i libri della Sapienza ha avuto vita difficile ed è straordinario adesso come appaia attuale. È la storia autobiografica di una terapia analitica e dell’amore che deflagra per l’analista, ma nel racconto di se stessa al medico, la scrittrice ricostruisce pezzi di vera vita e vera sofferenza.

Che bello stare seduti a teatro, me n’ero quasi dimenticata. Che bello quando due bravi attori (Donatella Finocchiaro e Roberto De Francesco) sono padroni del gioco e aprono davanti a te la stanza privata in cui si muovono. E sono soli, ma tu puoi ascoltarli. In silenzio segui i loro movimenti come un fantasma. Loro sono lì per te, ma fanno finta di no, come tu fai finta di non esserci rispetto alla storia raccontata, ma invece sei una presenza fondamentale, e lo sai, nel rito che si sta consumando. Tutto questo, mi rendo conto, l’ho sentito proprio perché è stata una prima volta, una nuova prima volta. Se no si va a teatro, ci si siede al posto assegnato, si applaude alla fine e si va via contenti o scontenti secondo i casi. E si perde il meglio. Il meglio del gioco di doppia finzione che è il teatro, il gioco degli attori e il gioco degli spettattori.

Goliarda Sapienza

E poi tutto dipende dal regista. Martone il senso del gioco teatrale te lo sa ricordare sempre. Non hai mai la sensazione che da una parte c’è il palcoscenico, dall’altro la platea. Lui ti coinvolge nell’azione, ogni volta in modo diverso. E così me ne stavo avvolta nel buio a guardare la bellissima Finocchiaro, che interpretava la bellissima Goliarda, e De Francesco abilissimo a entrare nei panni di un uomo diviso fra dovere professionale e sentimento dirompente da tenere assolutamente a bada. E c’era una splendida tensione fra i due, ma anche col pubblico. Sentivi che tutti trattenevano il respiro. La scena è a specchio: un salotto scisso in due salotti, perché credo dovessero rappresentare la scissione interiore, anche se Martone nel programma ha scritto che l’idea gli veniva da un ricordo della sua personale psicanalisi, quando gli era parso che il lettino su cui stendersi stava in un’altra stanza, e invece non era vero. Perché così succede nello studio dell’analista, tutto è vero e fantasmatico nello stesso tempo.

Quale sia la reale intenzione del regista non è poi così importante, e lui lo sa: l’importante è che funzioni. Quando Goliarda è stesa sul divano e l’analista dalla poltrona la interroga, quando lei scatta in piedi e cerca di abbracciarlo, quando lui la respinge, quando lui si abbandona. Da una parte e dall’altra dei due salotti in un dentro e un fuori continui. E lei, Goliarda, è la donna incontenibile della sua leggenda. Come fa a resisterle un uomo, per quanto analista? Chiamalo transfert, ma sempre di amore si tratta. E comunque siamo a teatro, a vedere, come scrive Vittorio Lingiardi nella sua presentazione, «uno spettacolo sulla vulnerabilità della talking cure e la sua pericolosa bellezza». E cita in exergo degli splendidi versi di Goliarda Sapienza, presi da Ancestrale (La Vita Felice, 2013): «Non ricordo l’inizio del discorso/ ricordo che improvviso il temporale/ confuse le tue ciglia i miei pensieri». Perché è vero, c’è poesia nella pericolosa bellezza dell’analisi. E c’è poesia in questa pièce tratta dal Filo del mezzogiorno, quando la luce è al massimo e a volte rischiara le cose rendendole comprensibili, a volte offusca tutto in un’esagerazione luminosa.

FacebooktwittermailFacebooktwittermail
No Comments

Post a Comment