Coltivare la gratitudine (Immaginazione 337, sett.-ott. ’23)

Coltivare la gratitudine (Immaginazione 337, sett.-ott. ’23)

Massimo Recalcati

L’ultimo libro di Massimo Recalcati, psicanalista fra i più noti anche grazie alla sua abbondante presenza mediatica, s’intitola A pugni chiusi (Feltrinelli, 400 pagine, 20 euro), uscito nel maggio di quest’anno. È una significativa raccolta di commenti usciti sulla Repubblica e sulla Stampa sui temi più vari, dalla violenza sulle donne al nuovo populismo, dal ruolo delle madri alle tentazioni sovraniste, da argomenti più propriamente psicanalitici all’analisi di personaggi politici di primo piano: Mario Draghi (come “ultimo padre”), Mattarella, Renzi, Berlusconi, Zelenskij ça va sans dire… È la dura vita dei commentatori di successo, devono mettere bocca su tutto. Per fortuna, una volta tanto, nel caso di Recalcati c’è (buon)senso della misura e delle cose, competenza e amore per la scrittura, e bisogna riconoscere che lo si legge sempre con interesse e imparando qualcosa. Detto questo, almeno io, lo preferisco quando resta nel suo campo e recentemente mi ha dato davvero molto un suo breve libro precedente, La luce delle stelle morte (Feltrinelli, 135 pagine, 16 euro) uscito nel novembre del 2022 ma già ristampato varie volte. Si tratta, come spiega il sottotitolo di un saggio sul lutto e la nostalgia, tema abbondantemente trattato non solo nella storia della psicoanalisi.

Eppure Recalcati riesce ad aggiungere qualcosa con una scrittura sobria e personale, commovente in modo pacato. «Quando si perde l’oggetto d’amore non viene meno solo l’oggetto perduto, ma anche una parte essenziale della vita del soggetto». Così «l’oggetto scompare» e «il soggetto si svuota». Ecco: come affrontare simile svuotamento? Elaborando il lutto, certo, ma non basta averne l’intenzione. Tante sono le vie di fuga che ci portano lontano da una simile elaborazione e da noi stessi e dal poter riprendere una vita che abbia davvero senso. Si può fingere che nulla sia accaduto e impazzire, o decidere di morire a propria volta mettendo in campo strategie diverse, dal suicidio a varie forme di vita fasulla. O si può guardare in faccia l’accaduto e seguire il sentiero della nostalgia che però ha due biforcazioni: il rimpianto e la gratitudine.

Quella del lutto è un’esperienza straniante, sconvolgente. È perdita definitiva di una persona amata e insieme conferma che la morte esiste, che abbiamo tutti – come diceva Jean-Paul Sartre – un biglietto di sola andata e che il nostro destino è la scomparsa. «Scompaio» fu tutto ciò che ebbe a dire Lacan sul letto di morte. Anche a credere nella reincarnazione, nulla può restituire quella vita lì, quella persona, proprio esclusivamente lei, che abbiamo perso. È anche probabile che il lavoro del lutto sia senza fine, che insomma non possa mai compiersi definitivamente, che non ci sia «alcuna possibilità di cancellare la cicatrice melanconica che il trauma della perdita ha inciso in noi».

E allora? Allora, suggerisce Recalcati, bisogna affidarsi alla nostalgia nella sua biforcazione numero due, bisogna coltivare la gratitudine. Ossia coltivare l’eredità che la persona perduta ci lascia, perché la sua presenza continui a brillare come la luce di certe stelle vivissime che vediamo la notte pur se sono già morte. E non è un discorso consolatorio, credetemi. Personalmente, ho capito proprio leggendo questo libro che a salvarmi da un lutto senza fine, o per dirla con Recalcati da uno sterile rimpianto, è stata la gratitudine. Gratitudine per cose vissute insieme a quella persona che abbiamo perduto, gratitudine per le tracce che ha lasciato (la luce che non si spegne), gratitudine per la libertà che ci lascia di poter continuare a vivere, amare, persino tornare a essere felici. «Il già stato bussa in questo caso alla nostra porta non come uno spettro che non vuole morire, ma come un’irradiazione di forze. È un passato che non è portatore di colpa e di rimpianti quanto piuttosto di un sentimento di gratitudine. E, in questo senso, non è solo passato ma promessa di avvenire».

In questo senso ogni persona che ci abbandona (e non solo perché muore, ma anche banalmente perché si stanca di noi e non ci ama più) può diventare un Maestro, sostiene Recalcati, e a me pare abbia ragione: dipende solo da noi trasformare in tesoro e insegnamento l’esperienza traumatica di una perdita. È un lavoro un po’ zen, forse, anche, ma ne vale la pena: usare il passato e la nostalgia come un modo per progredire nell’insegnamento junghiano del «diventa ciò che sei», trasformando i fantasmi in una nutriente fonte di luce.

 

 

 

 

 

 

 

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