Fotografie (L’Immaginazione, luglio-agosto 2015)
«Cammino e guardo, guardo e cammino» scrive Silvio Perrella nel suo ultimo libro Doppio scatto (Bompiani), un libro in cui ogni testo accompagna una fotografia. Sì, perché oltre a camminare e guardare, Perrella fotografa ciò che lo colpisce. Non lo fa con intenti estetici, ma per ricordare e scrivere. E siccome è esattamente l’uso che faccio io delle foto che scatto, questo libro mi ha immediatamente conquistata, e mi sono messa a leggere. Le immagini immortalano «momenti di essere» di una città, la sua, che è Napoli, i testi non spiegano, non giudicano, non cercano effetti letterari. Divagano, interrogano, compiono ulteriori vagabondaggi seguendo la tecnica delle libere associazioni, così un piccione affacciato a una ringhiera gli ricorda una definizione di Italo Calvino su questi pennuti: «le loro monotone spennacchiate livree grigio-piombo» o la sollecitudine di una scrittrice che non c’è più, Fabrizia Ramondino, che li sfamava; una bizzarra prospettiva lo rimanda alla pittura di Duchamp, la vista del mare gli suscita originali profezie: «Tra le sue onde rabbiose è nascosto l’alfabeto del futuro». Ha un modo di lasciarti sempre sospeso e di non arrivare mai a conclusioni rassicuranti che è certamente una dichiarazione di poetica.
Persino la città fotografata non è più Napoli, anche se perfettamente riconoscibile, ma diventa la Città, emblema di uno stato d’animo e di uno stare al mondo con leggerezza, ma una leggerezza appassionata, intelligente, serena. Sfogliando questo libro, che va letto con lentezza, non se ne può fare una scorpacciata, mi sono chiesta quanta distanza ci sia fra gli oggetti in sé e ciò che ne riproduce una fotografia. E’ una distanza vertiginosa, a pensarci, che non coincide mai esattamente non solo con la distanza che c’è fra realtà e immagine, ma fra gli sguardi, tutti i possibili sguardi che potrebbero provare a fissare lo stesso oggetto in momenti diversi o forse perfino nello stesso momento.
Questa considerazione si è rafforzata in me sfogliando un altro libro fotografico, questa volta di un fotografo professionista, Pasquale Comegna: Amelia di terra e di luce, edito dall’Assessorato all’Ambiente della città con il contributo dell’agriturismo La Camilla. Un volume che mi è particolarmente caro perché questa cittadina umbra è la terra dei miei avi ed è qui che vivo la maggior parte del tempo, non potendone più di una grande città come Roma, tollerabile solo a piccole dosi. Comegna è un bravissimo fotografo, che ha una grande sensibilità per il colore e per le forme. Dentro il suo obiettivo i prati diventano tavolozze, gli alberi giganti in abiti da sera, tre brocche accostate a un muro paiono uccelli che aspettano la madre nel nido con i becchi aperti. Tutto è insomma se stesso e insieme un’altra cosa. Persino un mucchio di legna accatastata, l’oggetto più inerte e monotono che ci sia, rivela una recondita biografia fatta di posizioni dei ciocchi nello spazio, cerchi concentrici nella carne lignea tagliata, sfumature di marrone di insospettabile varietà. Ed ecco dunque di nuovo la domanda: qual è la realtà che il fotografo ci tramanda? Perché, se guardo direttamente quelle finestre riflesse, quelle ombre che si allungano nella via, le vedo differenti da come Pasquale me le mostra nelle sue immagini? Perché la mia Amelia non somiglia alla sua? Nel senso strano che è insieme la mia Amelia, ma anche un’altra città, non esattamente la sua, ma una città che appartiene al Mito, che diviene (come nel libro di Perrella) la Città, in questo caso la Piccola Città. E i suoi cieli sono fantasie, e i fiori spampanati nel fiume un inequivocabile Matisse.
A tenere insieme i due libri, o per meglio dire i due atteggiamenti fotografici, quello del fotografo dilettante e quello del fotografo-fotografo c’è una stessa fiducia, non nella realtà né nella sua riproducibilità, ma nel racconto. Per Perrella è ovvio e lo dice apertamente, perché scrivere è il suo mestiere: lui fotografa per prendere appunti, come gli scrittori di una volta facevano – nei loro taccuini sempre a portata di mano – annotazioni, disegni, schizzi velocissimi. Per Comegna il racconto è in diretta, ha sede non nella penna ma nei suoi occhi: non dovrà tornare a casa a riorganizzare gli appunti. Sostenuto dalla tecnica del suo mestiere vede correre dei bambini sullo sfondo delle mura ciclopiche e subito li dice con uno scatto o una serie di scatti di cui non gli interessa la progressione, bensì l’attimo. Racconta tutto insieme, tutto in una volta la loro gioia, la forza fisica dell’infanzia, la Storia della città che li sostiene e li alimenta anche se loro non se ne accorgono. Perrella, da scrittore, non può non essere consapevole del proprio narrare, Comegna forse può abbandonarsi di più all’istinto. Perrella cerca la parola, Comegna il colore (sì, anche nel bianco e nero un fotografo cerca il “colore”!), però alla fine a tutti e due preme una cosa sola: la forma.
Ed è poi questa forma, questo gioco continuo e variabile delle forme, che chi guarda e chi legge ammira e conserva nella memoria e nel cuore, queste forme che ognuno vede a modo suo, queste forme che sono la prova fantasmatica del nostro essere vivi.