C’era una volta la maschera (Immaginazione n.298)

C’era una volta la maschera (Immaginazione n.298)

 

donna-mascheraParlando con un amico di com’erano le sale cinematografiche una volta, buie buie e piene di fumo, ma almeno prive del bombardamento cafone di pubblicità scassatimpani, salta fuori una figura dimenticata, quella della “maschera”, un’oscura signorina che attendeva gli spettatori sulla porta della sala (si poteva entrare in qualsiasi momento, anche a spettacolo iniziato, anche durante un finale tutto suspense). Generalmente arrampicata su tacchi alti e strizzata in una divisa inutilmente sexy, scostava la tenda e accendeva una piccola pila, che aveva subito pronta come una protesi della mano. «Era la guida nel regno delle ombre» dice il mio amico «il regno dell’irrealtà, del finto che copre il reale per dirne una verità più profonda. Per questo, probabilmente, si chiamava la “maschera”». Ed eravamo così abituati a lei, la davamo talmente per scontata che nessuno si preoccupava di guardarla in faccia, di immaginarle una vita al di fuori del cinema. «O forse» dico io «la chiamavamo maschera, perché, quanto s’intuiva del suo viso quando la piccola luce della pila le illuminava un po’, ma solo un po’, i tratti, li vedevamo distorti, pieni di ombre e segnacci in tutto quel buio. E sembrava davvero una maschera, anche un po’ terrorizzante». «Può darsi» dice lui. Macché, niente di così favoloso. Cerchiamo in Internet, la meravigliosa enciclopedia dei nostri giorni, e scopriamo la verità. La spiegazione è storica e risale alla fine del 1700 quando chi accompagnava al suo posto gli spettatori, a teatro, portava effettivamente una maschera sul viso per poter giudicare con maggiore libertà i conflitti che insorgevano tra la gente per questioni di posto, per evitare insomma di essere riconosciuti e subire eventuali ritorsioni.

Thomas Bernhard

Thomas Bernhard

A proposito di teatro. Vedo con piacere un gran fiorire di attenzione, a teatro appunto, per un autore difficile, Thomas Bernhard, di cui Ubulibri, ora Einaudi, ha meritoriamente tradotto i tre volumi che raccolgono le sue commedie. Ho appena visto all’Argentina di Roma un magnifico Roberto Herlitzka nel quasi monologo Minetti, per l’elegante regia di Roberto Andò e mi appresto ad andare allo spazio India per L’apparenza inganna, un testo del 1983 messo in scena da Federico Tiezzi con due attori congeniali, Sandro Lombardi e Massimo Verdastro. Un ricordo di molti anni fa, nel ’90 addirittura, mi riporta al teatro Ateneo dell’università di Roma, e all’interpretazione magistrale di Carlo Cecchi della spassosa pièce Claus Peymann compra un paio di pantaloni e viene a mangiare con me. Erano altri tempi e Bernhard si trovava allora in cima agli interessi dei lettori colti e degli spettatori che si andavano a cercare dove potevano le rappresentazioni su cui gli Stabili non si sentivano ancora di puntare. Dunque viva il teatro che oggi può permettersi questo scrittore complesso, di un nero che nemmeno la taglientissima ironia di cui pervade i suoi testi può minimamente dissolvere. (Prima ho definito spassosa Peyman, ma chi conosce Bernhard e sa come “lo spasso” sia concepito da lui, capirà in che senso ho usato la parola). Viva il teatro dunque che, come la poesia, avendo rinunciato a quei successi planetari che la letteratura pervicacemente insegue, attraverso best-seller proditoriamente definiti capolavori, porta avanti un lavoro serio – sempre abbondantemente sotterraneo – ma che tiene in vita quello che ci ostiniamo a chiamare arte.

Virginia Woolf

Virginia Woolf

Molta felicità pure mi viene dal constatare che il grande interesse riservato a Virginia Woolf resta saldo, e non esclusivamente da parte delle donne. Era appena uscito con Racconti, nuovo editore romano il cui nome indica la coraggiosa zona d’intervento, la raccolta completa di Tutti i racconti e altre prose della Woolf col bel titolo Oggetti solidi e la cura di una studiosa illustre, Liliana Rampello, quando ecco che Bompiani propone Lunedì o martedì. Tutti i racconti di Virginia Woolf, in questo caso ritradotti da un’unica mano, quella di uno scrittore congeniale, Mario Fortunato. E non è finita: seguiranno anche i saggi della scrittrice inglese, ancora una volta unificati (finalmente) nella voce di Fortunato. E’ davvero un enorme piacere ascoltare la prosa woolfiana restituita al suo brio originale, liberata dalla patina datata di vecchie traduzioni. E’ proprio vero: ogni generazione dovrebbe ritradursi i suoi classici. Soprattutto quando il traduttore ha una consapevolezza profonda della materia che tratta, ovvero di un metodo di scrittura che è forma e personalità di un autore disposto «a scendere in cantina e affrontare i propri fantasmi». Così Fortunato dice nel saggio introduttivo dove, in un mood autenticamente woolfiano, afferma che quando «chi scrive rischia di continuo se stesso» il pericolo di annegare nel mare inconscio delle proprie parole «non è né una battuta di spirito né una possibilità remota». E’, invece, lo spirito con cui non solo si dovrebbe tornare a scrivere, ma anche ricominciare a leggere.

 

 

 

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