I racconti di Antonio Debenedetti (L’Immaginazione 304)
Antonio Debenedetti ha sugli uomini e le donne uno sguardo crudele, eppure insieme quasi una complicità di intima, sorniona tenerezza, una comprensione un po’ disperata e persino arrabbiata, e la capacità – sempre – di comprendere a fondo la natura umana. Scrive senza spreco di parole, evita descrizioni dettagliate e sospende il giudizio, va dritto al sodo con una secchezza imparata una volta per tutte dal migliore Moravia. Non cerca la battuta, ma la battuta gli serve per ancorare la realtà allo spessore infimo della vita contemporanea, alla corrosione delle relazioni, al degrado della vita sociale, all’aridità morale. E non in nome di chissà quale compensazione alternativa o aspirazione ad altre vite, altre epoche magari, nostalgia di passato o speranza di futuro. Non ci sono passato o futuro che tengano. L’essere descritto da Debenedetti è un grumo di risentimento, fallimento, illusioni impotenti che vive qui e ora, e qualsiasi progetto o evoluzione sono destinati allo scacco. L’autore lo guarda, lo descrive e lo lascia com’è.
A volte manca l’aria, leggendolo. Sì, viene la sensazione restare intrappolati in un sacchetto stretto forte intorno al collo. Ma la letteratura deve dare sensazioni forti, stupido ribellarsi. Solo che Debenedetti, dopo la sensazione forte non ti allunga mai il fazzoletto. Non ti lascia nemmeno piangere. Molla la stretta del sacchetto e ti abbandona al tuo senso personale di sconfitta. In un universo letterario pieno di fazzoletti consolatori da tutte le parti, di soluzioni amene, di conclusioni prevedibili e di rassicuranti scoperte del “colpevole”, è una bella sfida.
La sua generazione, e quella venuta subito dopo, provava dagli anni Sessanta in poi un forte senso di disorientamento. Ci chiedevamo dove avremmo potuto collocarci, cosa scrivere dopo Beckett, dopo le neoavanguardie. Antonio, che è era stato sulle ginocchia di Saba e fin da piccolo aveva saputo quanto quelle ginocchia fossero un sostegno precario (persino per il corpo cui appartenevano), è semplicemente sceso da quelle gambe tremule, e ha scritto del proprio pessimismo assoluto. Come dice Cesare De Michelis, nell’ Introduzione: «Nei racconti non c’è speranza e anche ogni attesa di cambiamento si consuma nel nulla, c’è solo il misero orrore quotidiano al quale non si scappa». A meno che in questa contemplazione del buio, mitigata solo dalla carezza dell’umorismo, non sia implicita una qualche consolazione. Così va forse interpretato Mario Fortunato, quando scrive sull’Espresso: «Nella miseria che li affligge, nel tormento che li accompagna […] tutti trovano una qualche redenzione». Ma è una redenzione che non salva. Serve tutt’al più a prolungare ancora un poco il misero orrore della vita, e forse della fine, sempre rimandata ma sempre dietro l’angolo, dell’arte e della narrativa.