Un monaco cantante (da Giudizio Universale, 3 settembre ’10)

Un monaco cantante (da Giudizio Universale, 3 settembre ’10)

Tanti anni fa, nei primi anni settanta, a Roma, un professore di letteratura inglese molto amato dagli studenti, Agostino Lombardo, aveva avuto l’idea di invitare all’Università la Sapienza un oscuro poeta canadese, che allora viveva in un’isola greca, Hydra. Non sapeva, il professore, che quel poeta, un ancora giovane Leonard Cohen, era noto agli studenti come autore di una canzone che era già cult, Suzanne, e l’Aula Magna di Lettere si riempì come un uovo. Ero seduta in uno dei primi banchi centrali quel giorno, vedevo Leonard Cohen a distanza ravvicinata: un uomo sui quaranta, dagli occhi all’ingiù, una larga camicia infilata nei jeans, il sorriso molto dolce. Stava in piedi dietro la lunga cattedra, la lavagna alle spalle e si guardava intorno divertito. Si era portato la chitarra e il reading poetico presto si trasformò in un piccolo concerto improvvisato.
Correva tutt’intorno alle pareti dell’anfiteatro una scritta che gli studenti avevano dipinto durante un’occupazione: “AMORE AMORE FAMMI VENIRE CON LA RIVOLUZIONE”. Cohen l’aveva notata fin dall’inizio, se l’era fatta tradurre da qualcuno che gli stava accanto e concluse l’incontro arpeggiando e cantando quella frase col suo vocione “da rasoio arrugginito”, come è stato definito, e l’accento fortemente yankee. Ci mettemmo tutti a ridere e lo trovammo fantastico, ma non potevamo immaginare che quel giorno avevamo conosciuto, come avrebbe decretato Lou Reed molti anni dopo, “il più grande e il più influente dei cantautori” contemporanei.
L’altro ieri Leonard Cohen era di nuovo con noi, in piazza Santa Croce a Firenze. E’ stato il primo di settembre, unica tappa italiana di un lunghissimo tour apertosi in giugno a Zagabria e che si chiuderà in ottobre a Bratislava. Fra pochi giorni, il 21, Cohen compirà 76 anni. A Firenze, fin dal pomeriggio, c’era aria di attesa. Non ci si aspettava un concerto come tanti altri, ma un evento, una parusia, una darshan direbbero gli indiani: l’apparizione del Maestro fra i fedeli. Quando “il Silenzioso” (è il suo nome da monaco buddista) è salito sul palco, però, non abbiamo visto una divinità, ma solo un piccolo uomo elegante, un Humphrey Bogart d’indiscutibile charme, o anche “un mistico col cappello da gangster” come è stato detto, significativamente protetto dall’imperituro timpano della basilica che dominava le impalcature provvisorie.

Per tutto il concerto le sue strepitose canzoni rotolavano da una voce incredibilmente giovane e potente che lui sa calibrare, irrobustire, arrochire o rendere limpida piegandosi su se stesso, inchinandosi, quasi accartocciandosi in grande concentrazione. Sono esercizi che ha imparato cantando i sutra nei monasteri, dicono. Certo ha un segreto che non è di questa terra. Riesce a comunicare una disciplina tesa e modesta, e insieme a sprigionare, anche fisicamente, l’eros romantico e carnale dei suoi testi, quasi non fosse quel fragile uomo che è, dal viso scavato, il collo rugoso, i capelli bianchi (quando alza il cappello in uno dei suoi tanti aristocratici saluti), ma una desiderabile creatura di sesso maschile senza età.

Dance me to the End of Love è la prima canzone. Seguono The Future, The Bird on a Wire, Everybody knows; poi ha cominciato a pattinare. Sì, sembrava proprio che pattinasse sul posto, i pugni chiusi quasi a trattenere l’energia, le ginocchia puntute che increspavano la stoffa dei pantaloni. Era una piccola marcia, la sua, trascinante e festosa. E poi tutte (o quasi) le altre canzoni più note e belle: Chelsea Hotel, Sisters of Mercy, Who by Fire, naturalmente Suzanne e Hallelujah… e tanti bis. Nessuno poteva crederci, quel monaco cantante, ironicamente “vestito per uccidere”, alla fine intonava il canto ancora e ancora, con più forza che all’inizio. Regalava anche un inedito, strepitoso, Lullaby, anticipo di un nuovo album cui sta lavorando dopo anni di ozio.

Forse, anzi certamente, questo tour massacrante non ci sarebbe stato se nel 2004 Cohen non fosse stato truffato dalla sua manager Kelly Linch che gli svuotò il conto in banca e che, pur perdendo la causa, non riuscì a rifondergli niente. “In occidente non esiste la cultura del perdente, solo l’esaltazione del vincitore. Ma è nella sconfitta che si manifesta la gloria dell’uomo”: sono parole sue, e come s’è visto, non solo parole. Il monaco è sceso dalla montagna, il Silenzioso si è rimesso a lavorare e a parlare, e nel modo in cui sta sul palco, tutto concedendosi e tutto nascosto dentro di sé, passa qualcosa che va oltre un cantautore e il suo pubblico. Passa la storia della sua vita, passano le scelte di un uomo per niente banale.

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