Georgia O’Keeffe (Il Foglio, 1 ottobre 2011)
Sostiene Borges che uno scrittore, come un artista, impiega una vita intera a definire la sua poetica, ma poi alla fine «quel che lascia, se ha fortuna, è un’immagine di sé». In questo senso Georgia O’Keeffe di fortuna ne ha avuta tanta. E’ stata forse l’artista più fotografata dei nostri tempi, e non solo dal marito, Alfred Stieglitz, che ne ha immortalato l’intimità per un ventennio, ma anche da moltissimi altri come Ansel Adams, Laura Gilpin, Arnold Newman, Andy Warhol. Ed è una pittrice «facile»: i suoi fiori giganti, spudoratamente aperti a mostrare l’intimità di segrete labbra e vagine, le sue calle bianche accoppiate come monachine di cui spiamo dentro i calici (sotto la gonna?) l’urlo di gialli pistilli/clitoridi in fiamme, non hanno bisogno di didascalie, arrivano a destinazione dritti come frecce, comprensibili anche a un bambino. Per questa facilità, che è spesso ripetitività, un po’ noiosa se non furba, O’Keeffe ha tanti detrattori quanti ammiratori, e già nel 1929 si guadagnò l’ironia del «New Yorker» con una copertina firmata dal caricaturista messicano Miguel Covarrubias che la soprannominò «Nostra Signora delle Calle» (l’aveva conosciuta a Taos e la presenterà nel ’51 a Frida Khalo e Diego Rivera a Coyoacán). Uno di quei tiri mancini capaci di ottenere il risultato contrario: Covarrubias, infatti, finì col contribuire alla fama dell’artista quarantaduenne e già ben piazzata nello star-system di allora, proprio grazie, in consistente misura, al marito, noto guru dell’ambiente artistico newyorkese, suscitatore di nuove mode attraverso la sue prestigiose gallerie, da «291» nella Fifth Avenue, alle successive «Intimate Gallery» e «An American Place».
Malgrado una così massiccia presenza mediatica, accresciutasi nel corso della lunga vita (O’Keefe morì quasi centenaria), in Italia le si rende omaggio adesso per la prima volta con una importante mostra romana a Palazzo Cipolla (dal 4 ottobre al 22 gennaio 2012), affidata a Barbara Buhler Lynes, curatrice del Georgia O’Keeffe Museum di Santa Fe in New Mexico, prima tappa di un tour che toccherà anche Monaco di Baviera e Helsinki. Oltre sessanta opere attraverso le quali si potrà restituire giustizia e profondità a un percorso troppo semplicisticamente appiattito sui famosi fiori enormi e che conosce, invece, un pensiero fortemente innovativo e risultati più interessanti. Uno per tutti, l’importante prestito, solo per Roma, della tela New York Street with Moon proveniente dal museo madrileno Thyssen-Bornemisza. E’ un grande olio del 1925 in cui il dettaglio di un grattacielo contro un ondoso cielo notturno ha come fuochi tre luci: quella di un semaforo rosso, rubino sospeso nel nulla urbano, e quelle che rimbalzano una sull’altra della luna che fa capolino fra le nubi e di un lampione spampanato (come i soliti fiori) in primo piano, vero cuore della tela nel suo alone iridescente. Rara immagine di una città che affascinò la O’Keeffe, originaria del Wisconsin, senza mai veramente conquistarla e a cui lei dedicò almeno un’altra opera memorabile, del 1928, River, New York conservata al Metropolitan Museum. Qui la città segue il lento scorrere del fiume con forme stilizzate di costruzioni cubiche, spezzate da ciminiere sottili da cui s’impennano, verso un cielo tagliato via dall’inquadratura orizzontale del quadro, i fumi biancogrigi dei gas di scarico.
«Niente è meno reale del realismo» diceva. «Perché i particolari non possono che essere confusi. E’ solo attraverso la selezione, l’eliminazione, l’enfasi che raggiungiamo il senso reale delle cose». Una dichiarazione attraverso cui si leggono diversamente anche i suoi famosi Iris, Petunie, Calle, tutti quei fiori e foglie osservati da vicinissimo, come si fosse api in cerca del polline, oggetti ingranditi, sfacciatamente pronti a divorarci o anestetizzarci col loro esagerato profumo, sprigionatosi per la magia dei colori e delle forme. A volte, però, le scelte artistiche su cui poi generazioni di esperti costruiscono le loro interpretazioni, hanno un’origine così domestica da sfiorare il ridicolo. Quattordicenne Georgia O’Keeffe, già molto apprezzata dai suoi insegnanti e che aveva deciso dentro di sé di diventare un’artista, rimase mortificata dalle critiche della sorella sulle linee troppo scure di un suo disegno e, soprattutto, sulle proporzioni «troppo, troppo piccole». «Dissi a me stessa che non sarebbe capitato mai più. Mai e poi mai avrei disegnato qualcosa di troppo piccolo».
Quando ventenne si trasferì a New York per continuare gli studi artistici, eccola presentarsi alla 291 per vedere un’esposizione di disegni di Auguste Rodin. Ma per l’incontro fondamentale della vita, quello con Alfred Stieglitz, devono passare altri sette anni. Ancora una mostra alla 291, da cui questa volta Georgia esce con in mano una rivista, «Camera Work», pubblicata e donatale dal gallerista fotografo, che le è appena stato presentato da un’amica comune e che è rimasto colpito dalla «faccia di giovane strega» della ragazza come dai suoi schizzi a carboncino. Ma, ahi, Georgia già non vive più a New York: ha dovuto accettare un lavoro d’insegnante in un posto remoto del Texas e così i due cominciano a scriversi le prime lettere di una corrispondenza durata tutta la vita e che solo quest’anno è stata pubblicata in America, perché l’epistolario era sotto sigillo per un periodo di vent’anni dalla morte della pittrice. Lei è ingenua e sgrammaticata, ma entusiasta e sufficientemente adorante da titillare in lui, cinquantunenne ipocondriaco e depresso sposato a un’ereditiera della birra, sfrenati desideri combinati a paternalismo (bellissimo il ritratto che ne ha dato con tanto di occhialetti e baffoni bianchi il sempre attraente Jeremy Irons nel film del 2009 Georgia O’Keeffe, mai arrivato in Italia).
L’anno dopo, nel 1917, diventano amanti. Lei gli regala la sua verginità a Lake George, casa di vacanza della famiglia di lui nello stato di New York, avvenimento di cui Alfred continuerà a celebrare l’anniversario ogni anno, anche se già nel ’20 la tradisce con un’alcolista «dagli occhi di gazzella» ed è Georgia ad avere un crollo di nervi. Però a Lake George s’imbatte nelle bianche ossa di animali morti e spolpati dal tempo. Ossa che entrano nella sua pittura producendo un altro ciclo celeberrimo negli anni ‘30, come Horse’s Skull on Blue e le tante variazioni di teschi di cavallo e di mucca bianchissimi combinati con rose, bianche o colorate. Sono temi che riprenderà sempre e che non sente imparentati con la morte. Anzi negli scheletri, nelle carcasse, nei teschi animali che collezionerà più avanti nel deserto del New Mexico, dove stabilirà la sua dimora, O’Keefe vede una grande vitalità e, soprattuto, luce. Quella luce che diventerà a poco a poco il centro del suo lavoro, associata al segreto vitalismo della natura, quella luce che è per lei il primo ricordo infantile. Dirà nel suo modo approssimativo e visionario: «Le ossa appaiono come un taglio netto verso il centro di qualcosa che è ardentemente vivo nel deserto, malgrado la sua vastità e il suo vuoto, quel suo essere intangibile… il deserto che, con tutta la sua bellezza, non conosce clemenza».
Ma intanto si sta affermando come «Nostra Signora della Calle», e non solo. Stieglitz la lancia alla grande, le nega un figlio ma la sposa nel ’24 (il primo matrimonio era subito naufragato nello scandalo). E’ossessionato dal corpo di lei che fotografa in continuazione, nuda, vestita di bianco, il seno scoperto, vestita di nero con la pelle che brilla bianchissima, e crede nell’artista, in cui vede espresse per la prima volta esplicitamente le pulsioni più profonde della sessualità femminile. E’ il suo manager con idee molto moderne su quel che oggi si chiama «marketing», ma è un uomo fragile, narciso, nevrotico, profondamente newyorkese, mentre lei si sente in contraddizione con se stessa, non le interessa poi tanto diventare un’icona della liberazione sessuale femminile, ha un’anima ombrosa, irrequieta, misticheggiante, vuole scappare verso paesaggi vuoti e selvaggi. E lo fa. Ormai loro due sono una di quelle coppie che funzionano meglio a distanza piuttosto che insieme, eppure sono e restano legatissimi. E’ sempre più attratta dal New Mexico dove è stata già diverse volte imbattendosi, a Taos, nella leggendaria Mabel Dodge Luhan, l’ereditiera pluridivorziata, ex amante di John Reed, che aveva sposato un indiano pellerossa e si era stabilita, dopo vari anni fiorentini, in New Mexico. Qui nella sua originalissima casa la raggiungevano amici scrittori e artisti dei due continenti: da David Lawrence, che la immortalò nel Serpente piumato e nella Donna che fuggì a cavallo, a Willa Cather, da Carl Gustav Jung che fu suggestionato dal posto e dai nativi elaborando il tutto nel saggio Anima e terra, a Morgan Forster e Aldous Huxley che vi concepì L’arte di vedere. Ma per saperne di più su questa spaesata culla di genio e sregolatezza, di innamorati e di sradicati, basterà leggere l’incantevole saggio di Barbara Lanati, pubblicato da Donzelli l’anno scorso, Desiderio e lontananza.
Qui continuiamo a seguire le vicende di Georgia O’Keefe che ripetutamente tornò a Taos, dove il marito non ebbe mai alcuna intenzione di seguirla, anzi sostenne, a fugare ogni dubbio: «Se mi volessi suicidare andrei in New Mexico». Finché lei, affascinata non tanto dagli squilibrati che frequentavano quella zona desertica, quanto dalla natura e dal paesaggio, comprò una casa tutta sua, Ghost Ranch, un centinaio di chilometri da Taos, quasi duecento a nord di Albuquerque, sul confine del nulla, dove trascorreva l’estate e l’autunno. Dopo la morte di Stieglitz, che avvenne per infarto nel ’46, all’età di ottantadue anni, Georgia passò due anni a sistemarne l’opera fotografica, chiuse l’ultima galleria e si trasferì definitivamente nel suo adorato ranch. Anzi, per svernare comprò un’altra casa nel vicino villaggio di Abiquiu, e questi due edifici dall’architettura elementare, del color della terra intorno, con piccole finestre nelle mura spesse le entrarono di prepotenza nella pittura insieme al paesaggio lunare che la circondava. «Ci vuole coraggio a essere pittori» diceva. «A me sembra sempre di passeggiare sulla lama di un coltello». L’audacia dell’innovazione non le era mai mancata, fin dai primi acquerelli astratti, passando per l’immagine floreale travisata, approdando all’essenzialità di linee dove finalmente la luce trionfa in tutto il suo mortale splendore nei tanti paesaggi aridi e lucenti degli anni ’40 e ’50 dove ogni tanto si affacciano di nuovo le ossa candide e i fiori che sono diventati finti, di calicò. Ora trova anche il coraggio di diventare pienamente se stessa, prendendo le distanze da quello che Stieglitz aveva voluto fare di lei.
Ha superato i sessanta. Non è più, e probabilmente non è mai stata, la regina di un eros sgargiante, quale le sue rose spalancate, i suoi gigli ammiccanti – complice l’immaginario freudiano e maschilista del marito – l’avevano imposta presso il pubblico. Si fa fotografare in abiti austeri, i capelli legati stretti in una crocchia nel decor minimalista delle sue case in New Mexico. Nei video la si vede camminare con un bastone (quando sarà più vecchia), ma sempre agile nel deserto, sulle «sue» montagne. «E’ la mia montagna privata, questa. E Dio mi chiederà se ho dipinto abbastanza: l’ho fatto». E’ un dio panteistico il suo, che si confonde con quel paesaggio severo come lei, con quei colori luminosissimi e pacati, che ritroviamo nei quadri del periodo, una spiritualità che Georgia media dal pensiero orientale, ma soprattutto dalle antiche tradizioni pellerossa. E’ sola e non lo è. Non le mancano gli amici per viaggiare. E viaggia intorno al mondo, per la prima volta in aeroplano guardando il pianeta dall’alto. Una visione nuova che le suggerisce, negli anni ’60, un nuovo ciclo di magnifiche pitture, spirituali e semplici come i quadri di Rothko, ma più chiare, luminosissime. Cieli visti dall’aereo, tagliati dall’orizzonte lontano (Sky with Flat White Cloud), una strada invasa dalla neve che diventa una grande virgola scura che taglia la tela bianca (Winter Road I). Non si risparmia niente: ha più di ottant’anni quando compie per la terza volta la discesa spericolata del fiume Colorado.
Adesso le resta la dura vecchiaia, quella che «fa stridere le ossa» come diceva Virginia Woolf che aveva preferito non affrontarla, ritirandosi prima dal mondo. Ma nel 1973 – O’Keefe ha 86 anni – bussa un trentenne alla sua porta cercando lavoro. Si chiama John Bruce Hamilton, detto Juan. E’ bruno e bello, con grandi baffi che forse le ricordano Stieglitz. Georgia lo assume per qualche lavoretto e poi in pianta stabile. «E’ arrivato nel momento esatto in cui avevo bisogno di lui» rifletté. Per i detrattori è un astuto cacciatore di dote, uno spendaccione che sperpera i soldi dell’artista ricca e famosa in auto di lusso intestate a lei che lei non può guidare (è quasi cieca ormai). In ogni modo sa conquistare la piena fiducia della compagna, che forse, persino, segretamente lo sposa (un modo più sbrigativo dell’adozione per sistemarlo presso i posteri, no? E Georgia sarà cieca ma è ancora lucidissima). E’ un ceramista e la incoraggia a impegnarsi in questa arte, è onnipresente, protettivo. In pubblico lei, sempre audace, non lesina affettuosità e lui ricambia: due innamorati, o semplicemente una donna che ha finalmente realizzato il suo desiderio di maternità e un figlio che approfitta, inevitabilmente, della generosa «cecità» materna. Insieme compiono ancora una serie di bei viaggi, dalle Hawaii alla Costa Rica. Solo negli ultimi due anni di vita O’Keeffe si ferma: traslocano a Santa Fe, nella casa della famiglia di Juan dove l’artista muore a 98 anni. Come lei aveva chiesto, Juan salì sul monte Pedernal, il «suo» monte, e ne disperse al vento le ceneri. La mostra di Palazzo Cipolla propone anche la ricostruzione eccezionale dello studio dell’artista a Ghost Ranch con l’esposizione dei suoi strumenti di lavoro e alcuni oggetti personali, mentre un ampio allestimento di fotografie di celebri fotografi americani, che la ritraggono, ripercorre i momenti salienti della sua lunghissima vita.
«Quando penso alla morte» aveva detto negli ultimi mesi «l’unica cosa che mi dispiace è l’idea di non vedere più la bellezza di questo paesaggio tutt’intorno. A meno che non abbiano ragione gli indiani e il mio spirito, allora, tornerà a passeggiare qui anche dopo che me ne sarò andata».