“Una separazione” di Farhadi (Giudizio Universale, 20/10/11)
Separarsi è uno di quegli eventi enormi della vita che inevitabilmente si trascinano dietro una quantità di conseguenze. Separarsi in un paese come l’Iran, dove la legge e il privato delle persone sono condizionati fortemente dalla religione, è ancora più complicato. Cominciamo da questo tema perché il regista, Asghar Farhadi, intitolando il suo film Una separazione (strapremiato a Berlino) questo ha voluto mettere al centro della storia. In realtà molti sono i temi che s’intrecciano e forse più decisiva del separarsi è la contrapposizione dire la verità/mentire che si dimostrerà decisiva nello sviluppo della trama. E anche sconcertante. Soprattutto per gente come noi, occidentali naturalmente abituati alla menzogna, sociale, sentimentale, esistenziale. Sì, si resta sconcertati seguendo la vicenda di Nader e Simin, della loro figlia adolescente Termeh, lacerata dalla separazione dei genitori, dal nonno con l’Alzheimer, sballottato inconsapevole da una casa all’altra, affidato a una badante incapace e impacciata dallo shador come da un invasivo senso religioso. Invasivo nella nostra ottica e in quella di iraniani colti e indipendenti, quali sono i protagonisti del film. E anche, suppongo, nell’ottica del regista, abilissimo a raccontare una faccenda privata dentro le regole del suo paese (le attrici, anche fra le pareti domestiche per esempio, tengono in testa un leggero foulard, così non rischiano carcere e frustrate com’è capitato a Marzieh Vafamehr, rea di aver recitato col capo scoperto in My Teheran for Sale) e insieme spiegare dettagliatamente l’assurdità della condizione femminile e del rapporto fra cittadino e giustizia in una società teocratica, inevitabilmente maschilista nel senso peggiore del termine.
Però questo film è tanto più interessante, quanto meno è politico o di denuncia. «Non mi piacciono i film manifesto, perché nascondono una dittatura interna. Viceversa, più si è vicini alla realtà, più si è politici» ha dichiarato Farhadi. Ed essere vicini alla realtà vuol dire non essere semplicistici, non dividere il mondo in buoni e cattivi, non schierarsi nettamente da una parte o dall’altra della ragione. Perché la ragione non è una, ma tante. In un certo senso Una separazione è una commedia pirandelliana. Ha ragione Simin a rischiare la separazione pur di allontanarsi dalla patria, cogliendo un’occasione irripetibile di offrire alla figlia un futuro diverso; ha ragione Nader che non vuole abbandonare in mani estranee il padre demente; ha ragione (anche se è dura per noi accettarlo) la badante Razieh a non pulire il sedere del vecchio finché un’autorità religiosa non le garantisce che non commette peccato; ha ragione Termeh che non riesce a prendere partito fra le volontà contrapposte di papà e mamma…
Chi ha torto allora? Ha torto il violento, il mentitore, il marito di Razieh, disposto a farsi beffe della religione sbandierata a ogni piè sospinto, quando gli impedisce di ottenere, in un processo, i soldi di un risarcimento che non gli spetta. E ha torto lo stesso Nader, che costringe sottilmente la figlia a mentire, per uscire pulito dallo stesso processo. Eppure. Eppure sono «torti» comprensibili, giustificabili umanamente. Nemmeno è un caso che i manipolatori siano due maschi. Due maschi, però, che si piegheranno di fronte all’incorruttibilità delle mogli e alla grazia misteriosa di una ragazza che, nel bel finale sospeso, ha in mano il bandolo della vita propria e dei genitori.